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Ma non sia la fine del bipolarismo

Se voti Grillo voti solo uno strillo“, diceva un simpatico banner che girava sui social network in campagna elettorale. A urne chiuse e a risultato acclarato, è ormai evidente che gli italiani hanno strillato parecchio: contro il Pd, che da vincitore assoluto si è trasformato nuovamente in aspirante perdente, contro il Terzo polo che è stato bastonato come mai nessuna rottamazione si sarebbe sognata di fare e anche contro il Pdl che da partito guida del Paese si ritrova oggi nella condizione di aspirare al massimo a un governissimo dai dubbi risultati.

Vedremo nelle prossime ore  quale piega le consultazioni di fronte al presidente della Repubblica prenderanno e se l’intesa Pd-Grillo chiesta, di fatto, dal segretario democratico sarà davvero praticabile. E vedremo nei prossimi giorni come si muoveranno i partiti, a iniziare dal banco di prova dell’elezione del successore di Giorgio Napolitano. Ma fin d’ora molti commentatori si sono affrettati a dire con salomonica certezza che il bipolarmismo è morto.

Certo, guardando la tripartizione Pd-Pdl-Grillo del Senato è un’affermazione che viene spontanea e anche se si prendono le percentuali della Camera la tentazione di arrivare a questa conclusione è forte. Ma, a ben considerare le cose, questa verità “fotografica” non necessariamente deve combaciare con la realtà politica e istituzionale del Paese.

Negli Stati Uniti, dove da secoli si fronteggiano solo due partiti che hanno chance di vincere, tutti ricordano l’esperienza del texano Ross Perot che, da terzo incomodo fra Bill Clinton e George Bush senior, nel 1992  ricevette il 19 per cento dei consensi popolari, qualcosa come 19 milioni di voti. Ma il sistema uninominale maggioritario non gli assegnò nessun voto dei grandi elettori. Nessuno sano di mente negli Usa pensò per questo di chiedere l’avvento del proporzionale. Clinton vinse grazie anche al “disturbo” di Perot e si attrezzò politicamente talmente bene che quattro anni dopo quell’esperienza era ormai consegnata ai libri di storia e arrivò agilmente al suo secondo mandato.

In Gran Bretagna, la terra che ha inventato i collegi uninominali, nel 2010 c’è stato un verdetto praticamente tripartito, fra Conservatori (36%), Laburisti (29%) e Liberaldemocratici (23%), tanto che per la prima volta è stata necessaria un’alleanza per governare; ma anche in questo caso il terzo partito si è dovuto accontentare di una cinquantina di seggi, contro i 300 dei conservatori e gli oltre 250 dei laburisti. A L0ndra i liberali invocano il proporzionale da anni, ma c’è da dubitare che il Parlamento della Regina, delle consuetudini e delle tradizioni, faccia qualcosa di così europeo, dunque di anti-britannico ai loro occhi. 

Ecco, tutto questo evidenzia che il bipolarismo è una scelta di governabilità delle democrazie più evolute e poco ha a che fare con le fotografie proporzionalisitche dei parlamenti. E tutto questo evidenzia anche che sarebbe folle pensare (come è avvenuto nell’ultimo scorcio dell’ultima legislatura) di voler cambiare la legge elettorale (che almeno alla Camera produce maggioranze solide) con il solo intento di frenare questo o quel partito.

Per i partiti tradizionali è suonata la campana: le elezioni hanno dato un chiaro messaggio politico che andrà risolto con la politica e il rinnovamento degli uomini e delle idee, non certo con alchimie da legge elettorale. A quest’ultima però si potrà e si dovrà chiedere una maggiore governabilità, non certo un ritorno all’ancien regime del proprozionale puro. Con un’iniezione di buona politica e con un meccanismo elettorale che premi la governabilità i “grillismi” farebbero meno paura e il Paese non si troverebbe nuovamente a cercare improbabili maggioranze, come accaduto per la seconda volta negli ultimi due anni. Con buona pace dei nostalgici della Prima Repubblica e delle fotografie proporzionaliste.

elezioni 2013, pd, pdl

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