
Abbiamo parlato più volte dei disastri provocati dalla Legge Delrio, riforma incompiuta delle province, che continuano a coesistere con le città metropolitane. La riforma del 2014 infatti non ha previsto l’abolizione delle province, ma solo la sostituzione con nuovi enti (di area vasta) che hanno continuato a occuparsi di edilizia scolastica, ambiente, trasporti, strade provinciali e peri quali non sono più previste elezioni dirette, ma solo elezioni interne fra i comuni interessati. Per eliminarle infatti servirebbe una riforma costituzionale, come quella di Renzi, che prevedeva di cancellare la parola «province» dalla Carta, rinviando a una legge ordinaria la determinazione delle funzioni e delle competenze la loro cancellazione. Mala riforma di Renzi fu bocciata per referendum
Matteo Salvini adesso dichiara di valutare la reintroduzione delle Province, non per amore delle autonomie, ma seguendo un ragionamento pratico. Prima del 2014, anno della legge Delrio che le abolì, le Province esistevano ed erano carrozzoni costosi che funzionavano male ma qualcosa facevano, specie in materia di strade e scuole. Dopo l’approvazione della norma, hanno continuato a sopravvivere e costare, con l’unica differenza che ora non fanno assolutamente nulla, ma dopo cinque anni di blocco delle assunzioni, dal 2017 hanno anche iniziato a infomare nuovi dipendenti. Quindi, dice il ministro, se non si riesce ad abolirle, tanto vale farle funzionare correttamente. tanto vale quindi usarle. Fino alla loro finta abolizione, tali enti pesavano sulla spesa pubblica per dieci miliardi l’anno, l’1,27% del totale. Oggi, costano 500 milioni in meno, ma alla somma bisogna aggiungere lo stipendio degli oltre ventimila ex dipendenti provinciali ricollocati presso Regioni e Comuni e quello dei prossimi assunti a tempo indeterminato.
Inoltre le Province hanno bilanci sempre peggiori. Nove (Asti, Novara, Imperia, Varese, Ascoli, Chieti, Salerno, La Spezia e Potenza) sono in stato di pre dissesto mentre tre (Biella, Caserta e Vibo Valentia) lo hanno dichiarato ufficialmente. Tant’è che la legge di Bilancio dello scorso anno ha previsto per il 2018 un’iniezione nelle loro casse di oltre 700 milioni, più altri stanziamenti grazie ai quali, a conti fatti, ci costeranno quasi un miliardo oltre l’ordinario budget. Inoltre la legge Delrio, senza che nessuno dei presunti «veri democratici» ai quali si deve la fallimentare riforma, si opponesse, ha fatto sì che i cittadini fossero esclusi dalle elezioni degli amministratori degli enti. Il presidente e i consiglieri si autonominano tra di loro, pescando tra gli amministratori dei Comuni della Provincia, senza controllo e senza dover rendere conto a nessuno.
Vista la deficitaria situazione Salvini vuole riportare alla luce i vecchi enti, per far avanzare le autonomie e collegarle con l’azione di quelle regioni (Lombardia, Veneto e Emilia Romagna), che hanno già chiesto maggiore autonomia allo Stato. Anche se noi continuiamo a sostenere che l’unica riforma che produrrebbe concreti risultati per un risparmio della finanza pubblica sarebbe quella di un taglio al numero, alle competenze, ai politici che popolano gli scranni delle Regioni a statuto ordinario e (soprattutto) speciale, fonti di sprechi inesauribili e antitetiche, molto spesso, allo sviluppo delle vere autonomie locali, comuni e province.
La sua analisi è condivisibile, non sono d’accordo tuttavia con la sua ultima affermazione: se è pur in parte vero che le Regioni hanno talvolta limitato l’autonomia degli enti locali, di fatto se esse non esistessero sarebbe lo Stato stesso a limitarle.
Se mai andrebbe introdotto un vero federalismo fiscale, con una compartecipazione al gettito tributario locale da parte delle Regioni (e Province e Comuni) che sia conforme a costi standard per competenza uguali per tutti, basati su comuni livelli essenziali di assistenza, ciò assieme al mantenimento di un fondo di perequazione che, fatte salve le risorse delle Regioni ed Enti locali, possa fornire fondi aggiuntivi ai territori più deboli. Così si potrebbe responsabilizzare la politica regionale e forse, per riflesso, anche quella statale.
Ci terrei inoltre a sottolineare il fatto che se pure la finanza pubblica dovesse risparmiare da un’eventuale abolizione delle Regioni (anche se da fonte CGIA di Mestre la spesa deriva per il 96% da Organi Centrali) a farne le spese sarebbe la democrazia stessa, che si vedrebbe privata dell’unico vero ente di decentramento mai concepito in Italia, anche se mai attuato a pieno.
A meno che non si dica di dare autonomia legislativa e finanziaria alle Province. Quello sarebbe un altro discorso.