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Torino, omicidio Leo: Presidente Corte d’Appello, chiedo scusa alla famiglia, ma il marocchino non era libero per colpa dei magistrati

TORINO – «Nessuno poteva immaginarsi quello che è accaduto, chiedo scusa come rappresentante della magistratura e dello Stato alla famiglia, ma tanto i magistrati come la cancelleria per quello che è la prassi hanno lavorato nei tempi previsti. Le notizie date dai giornali sono molto inesatte perché i magistrati hanno fatto il loro dovere. Così il presidente della Corte d’Appello di Torino Edoardo Barelli Innocenti chiamato in causa per la vicenda del 27enne italiano di origini marocchine ritenuto responsabile dell’omicidio di Stefano Leo, ucciso il 23 febbraio scorso ai Murazzi del Po, nella conferenza stampa in cui ha ricostruito la vicenda della condanna per maltrattamenti in famiglia del 27enne.

«La persona indagata dell’omicidio – ha spiegato – ha commesso maltrattamenti in famiglia nel 2013, la sentenza di primo grado che lo condanna è del 20 giugno 2016, a tre anni di distanza dai fatti. E’ stato proposto appello, come sapete la corte d’Appello è in grave ritardo, però in questo caso ha emesso un’ordinanza di inammissibilità il 18/4/2018, cioè entro i due anni previsti dalla legge Pinto. Una volta che il giudice ha emesso il provvedimento, sia sentenza o ordinanza, il provvedimento passa alla cancelleria e può essere impugnato in cassazione. Se come in questo non è stato fatto, la cancelleria mette un timbro di irrevocabilità dopodiché c’è fase esecutiva che spetta alla procura».

«La sentenza – ha aggiunto – è divenuta irrevocabile l’8 maggio 2018, se noi fossimo nel migliore dei mondi nei possibili, se il 9 maggio il cancelliere avesse visto che era stato condannato a un anno e sei mesi senza condizionale e avesse trasmesso immediatamente l’estratto alla procura e questa avesse eseguito questa sentenza non c’è alcuna
garanzia che il 23 febbraio sarebbe stato in carcere Per cui l’equazione che ho letto sui giornali mancava solo una firma bastava trasmettere questo o quest’altro perché ciò non succedesse, non è così».

«Anche in sede esecutiva se uno si comporta bene ha 45 giorni di beneficio. Inoltre anche se è stato condannato con sentenza definitiva e va in carcere, l’imputato può accedere a misure alternative, quindi – ribadisce – le cose scritte non sono così. E anche – ha detto ancora – attribuire alla corte d’appello l’attenuante generica della carenza di personale perché è una scriminante. Non c’era alcuna garanzia che anche se fosse stata eseguita quella sentenza il 23 febbraio l’imputato di questo gravissimo fatto non sarebbe stato lì perché non è detto che non avrebbe potuto accedere alle misure alternative, una volta anche eseguita la sentenza – ha concluso il presidente della Corte – quindi avrebbe potuto trovarsi lì cine avrebbe potuto trovarsi lì’ se il suo avvocato avesse fatto fatto ricorso in Cassazione».

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Paolo Padoin

Già Prefetto di Firenze Mail

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