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«La morte mi fa ridere, la vita no»: la fiorentina Elisa Giobbi rievoca i maledetti, perdenti e sommersi del pop

La scrittrice fiorentina Elisa Giobbi

FIRENZE – Martedì 29 settembre alle 18.30 al Circolo Aurora in Piazza Tasso si presenta «La morte mi fa ridere, la vita no. Maledetti e dimenticati della canzone italiana» (ed. Arcana). L’autrice, la fiorentina Elisa Giobbi, dialogherà col giornalista di «Repubblica» Fulvio Paloscia, mentre Chiara Foianesi leggerà alcuni estratti.

Quattordici artisti italiani; sette “maledetti” e sette “dimenticati”. Ben noti, anche se non tutti ricordati quanto meriterebbero, quelli del primo gruppo: Fred Buscaglione, Piero Ciampi, Luigi Tenco, Franco Califano, Gabriella Ferri, Mia Martini e Rino Gaetano, dei quali Elisa Giobbi parla direttamente. I sette dimenticati ebbero gran talento, ma fortuna effimera: Daniele Pace, Ugolino (l’unico ancora vivo, oggi ottuagenario), Franco Fanigliulo, Enzo Del Re, Stefano Rosso, Guido Toffoletti e Massimo Riva; per ricordare la loro arte e raccontare le loro vite per lo più brevi, l’autrice si affida a testimonianze e interviste a chi questi artisti un po’ fuori dagli schemi li ha conosciuti direttamente.

«Io, tu e le rose» e «Nessuno mi può giudicare» sono canzonette che tutti conoscono ancora; in meno sanno che le scrisse Daniele Pace (1935-1985), quello del trio Pace-Panzeri-Pilat che firmò un mare di canzonette di successo, ma fu anche cofondatore, nel 1971, dei mitici «Squallor» (cui forniva molti spunti). “Il Divo”, lo chiamava Orietta Berti, quando lo vedeva al volante della sua Lamborghini Miura; morì stroncato da un infarto a 50 anni giusti. Franco Fanigliulo (1944-1989) ebbe il suo momento di gloria al Festival di Sanremo 1979 con la strampalata «A me mi piace vivere alla grande», che sul palco arrivò con qualche piccola censura: recitava (è il caso di dirlo: piacque al pubblico anche per l’interpretazione molto istrionica) «Ho un nano nel cervello, un ictus cerebrale, bagni di candeggina, voglio sentirmi uguale», ma ci sarebbe stata la cocaina al posto della candeggina. Triste profezia inconsapevole: morì d’emorragia cerebrale a 44 anni, senza aver mai più bissato il successo del 1979. Più durevole la popolarità di Stefano Rosso (quello di «Una storia disonesta», che gli valse nel 1977 il telegatto di Sorrisi e Canzoni), ma spenta ben prima della pur non lunga vita: è morto a neanche sessant’anni nel 2008. Enzo Del Re (1944-2011) negli anni Sessanta lavorava al mercato ortofrutticolo di Firenze; grazie a un concerto per gli Angeli del fango dopo l’alluvione del ’66 conobbe Antonio Infantino e con lui entrò nel cast di uno spettacolo della compagnia Nuova scena di Dario Fo; lui non sarebbe stato tanto dimenticato, anzi, in questo secolo era stato rimesso in auge da un divertente film che prendeva il titolo (e la sigla) dalla sua canzonetta più famosa, «Lavorare con lentezza» (1974, quando, duro e puro, per esibirsi come cachet chiedeva la paga giornaliera di un metalmeccanico) e portato sul palco del concertone romano del 1 Maggio da Vinicio Capossela nel 2010, anno in cui gli fu dedicato un documentario e fu invitato alla Rassegna delle canzone d’autore sul palco dell’Ariston di Sanremo. Ma poco dopo mori.

A questi e agli altri tre “dimenticati” che pure hanno arricchito la storia della canzone italiana il libro rende un tardivo ma doveroso omaggio. Elisa Giobbi è autrice anche di «Firenze suona» (2015), «Rock’n’Roll Noir» (Arcana, 2016), «Eterni» (2018), «La rete» (2018), «Love (& Music) Stories» (2019) e «La sposa occidentale» (2019).

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