La saga di «cosa nostra»

Continua ad oltranza la saga delle famiglie mafiose di «cosa nostra». Prima il figlio di Bernardo Provenzano preoccupato per il padre che ruzzolava dai letti in carcere, poi la figlia di Salvatore Riina che imbratta tele e dà sfogo alla sua vena poetica sull’inginocchiatoio di casa in adorazione del padre assassino di bambini piccoli.
Oggi a poche ore dalle esternazioni della Lucia Riina sul settimanale l’Espresso (dove la piccola Nadia è diventata Nadia «Cencioni» anzichè Nencioni come il padre Fabrizio, entrambi vittime della strage di via dei Georgofili), ecco il cambio repentino di tecnica di comunicazione: la figlia di Matteo Messina Denaro appena quindicenne prende le distanze dal padre, reo di strage terroristica eversiva e ancora latitante dopo 20 anni.
Non c’è pace tra i cipressi dei cimiteri dove cercano di riposare i nostri morti. Qualcosa sembra agitare «cosa nostra», ma soprattutto sembra agitare tutti quei politici che con l’organizzazione criminale «cosa nostra» si sono collusi a fare affari.
Le quindicenni da sempre si ribellano ai padri, si ribellano ai padri che vanno per loro a lavorare ogni mattina, figuriamoci le figlie dei mafiosi assassini. Quindi come si dice una rondine di soli 15 anni non fa primavera.
Aspettiamo che la figlia di Matteo Messina Denaro cresca e quando avrà bisogno di metter le mani sui conti correnti del padre, tenuti intatti per lei nelle banche che ospitato i capitali dell’uccel di bosco capo mafia, vedremo che farà.
Per ora quello che conterebbe per tutti noi è la mancanza di rumore intorno a questi rampolli figli di capi mafia, ma pare non ci sia dato di sentirlo calare questo invocato silenzio stampa sui mafiosi.
Il dovere del silenzio per rispetto ai nostri morti, pare che qualcuno in questo Paese a livello politico lo voglia infranto, affinché le «famiglie mafiose» siano presentate al popolo come normali famiglie molto cattoliche, dedite alla preghiera e alle prese di distanza dai padri cattivi, cercando così con larghi consensi di tirare fuori dalla galera e dal 41 bis tutti i capi di «cosa nostra».
È fin troppo chiaro: la mafia sta presentando i suoi conti a chi promise di aiutarla in cambio di 277 chili di tritolo in via dei Georgofili a Firenze e chi meglio delle facce che paiono pulite dei figli giovani dei mafiosi può servire all’uopo?
Non ci si scordi però che il 1 Aprile del 1993 nella villetta di santa Flavia i «capi provincia» che rappresentavano tutte le famiglie mafiose della Sicilia si radunarono per deliberare l’operatività delle stragi in Continente. Mezza Italia lo sapeva compresi i figli dei capi mafia, anzi nel processo di Firenze è scritto «lo sapevano anche i sassi».
