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Mala università: come prima, peggio di prima

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Il Ministero dell’Università

Il pachidermico apparato della riforma Gelmini ha imposto nuove regole per moralizzare concorsi, chiamate, valutazione della ricerca: con quali risultati? Avrete letto il titolo: come prima, peggio di prima. Vediamo un esempio recente di malcostume universitario. Il 24-09-2013 un quotidiano nazionale pubblica, con ampi stralci di intercettazioni telefoniche, un articolo in cui si rivelano i maneggi dell’ex presidente della regione Umbria, Maria Rita Lorenzetti (arrestata qualche giorno prima con l’accusa di corruzione nell’ambito dell’inchiesta sul nodo fiorentino della TAV). La Lorenzetti, in combutta con la prof. Gaia Grossi, ex assessore regionale, e con l’ex rettore di Perugia Francesco Bistoni, aveva brigato per far superare l’esame di Patologia a uno studente di odontoiatria che in tempi brevi avrebbe dovuto aprire uno studio a Terni. Il tizio si presenta e passa con 30. Sulla vicenda sono state presentate due interrogazioni: una parlamentare, dall’on. Fabiana Dadone (M5s), e una al Consiglio regionale umbro, dal consigliere Gianluca Cirignoni (Lega Nord).

Al di là dell’ennesimo, squallido caso d’italica raccomandazione, non possiamo non porci un interrogativo: che cos’è, oggi, un esame universitario? Il diritto dello studente ad essere esaminato con umanità e comprensione è sacrosanto, ma esiste anche il diritto della comunità nazionale alla verifica della preparazione di chi, ottenuto un titolo di studio con valore legale, andrà ad esercitare professioni in cui la carenza di competenze può provocare danni gravissimi (pensiamo all’ambito della medicina, dell’architettura, dell’ingegneria civile). Il caso della verbalizzazione con firma digitale adottata dall’università di Firenze è emblematico della confusione mentale e burocratica che regna nei nostri atenei. Tutto è finalizzato alla protezione dello studente, che può senza alcuna sanzione ritirarsi o rifiutare il voto (magari per ritentare al successivo appello, ad appena un paio di settimane di distanza dal fallimento, di cui non resta traccia alcuna). Il diritto della comunità cui si accennava sopra è totalmente ignorato. Eppure i fatti (e soprattutto le intercettazioni telefoniche) mostrano che i professori non sono tutti integerrimi. C’è chi cede alle raccomandazioni dell’amico, ma c’è stato, in passato, chi offriva la promozione in cambio di prestazioni erotiche, e persino chi depositava liste di tipo nuziale in negozi di lusso (la fantasia accademica non ha limiti), imponendo agli studenti – pena la bocciatura – l’acquisto di porcellane e argenteria. Per tacere di chi garantiva il buon esito della prova solo dopo una congrua serie di costose lezioni private. È chiaro che l’antidoto all’illegalità dev’essere nelle regole, non nella presunzione di santità del corpo docente.

A garanzia della regolarità degli esami, obietterà qualcuno, c’è la commissione. Ma il concetto di commissione, col passar degli anni e l’inarrestabile avanzata della demagogia, è come evaporato. Tutti noi over anta ricordiamo i tre inquisitori (professori o assistenti) che ci trovavamo davanti ai nostri tempi. Contrordine compagni: ora, almeno a Firenze, bastano due soli docenti, anzi va bene anche un solo docente coadiuvato da un cultore della materia. Che spesso è un fantasma, ossia figura solo sulla carta, perché gran parte degli esami si svolge a quattr’occhi: da una parte il prof, dall’altra lo studente. Del resto, quand’anche gli esaminatori fossero due, solo uno è titolare della firma digitale. L’altro è presenza puramente formale, senza alcuna voce in capitolo. Mettiamo che il titolare proponga 30 per un candidato che ha sostenuto un esame da 18. Il collega – ammesso che ci sia – protesterà: «Non è possibile, è appena sufficiente!». Se l’altro insiste, che succede? Ci fosse un terzo membro, il suo parere sarebbe determinante: ma non c’è. E allora? Allora il titolare della firma digitale andrà al computer e registrerà un bel 30, che il miracolato sarà ben lieto di accettare. Quanto al commissario in disaccordo, non può minacciare di non firmare: secondo la prassi informatica fiorentina, la sua firma non è prevista in nessun verbale. Se vuole, potrà denunciare il collega per falso in atto pubblico, sobbarcandosi ingenti spese legali senza alcuna speranza di ottenere giustizia, a meno che non abbia provveduto a registrare la controversa prova o non trovi altri, presenti all’interrogazione, disposti a confermare la sua versione dei fatti. Sembra incredibile, ma questa è la realtà.



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