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L’immigrazione islamica e i suoi problemi nel Belgio degli anni ’80

Parco del cinquantenario
Parco del cinquantenario

Nei primi anni Ottanta abitavo per diversi mesi all’anno a Bruxelles, nei pressi del Berlaymont (il Palazzo della Commissione Europea), e tutti i giorni, per andare alla Bibliothèque Royale, prendevo il métro a pochi metri da casa: alla stazione di Maelbeek, proprio quella devastata dall’attentato di martedì.

In Italia il fenomeno dell’immigrazione non era ancora iniziato, ma nella capitale belga interi quartieri erano già ad alta densità islamica: non solo il più periferico Molenbeek, ma anche Schaerbeek, a due passi dai palazzi CEE. Man mano che i vecchietti belgi passavano a miglior vita, le loro piccole e scomode casette stile fiammingo (una stanza per piano, un water in cima alle scale, niente bagno) venivano affittate dagli eredi a immigrati magrebini. La mano d’opera era costosissima in Belgio, e non valeva la pena ristrutturare una decrepita maison o un appartamento fatiscente. Chi prendeva in affitto la casa, poco dopo chiamava il fratello o il cugino, poi arrivavano le famiglie pullulanti di bambini; e dove prima abitava una coppia di anziani si ammassavano dieci o più persone. Si aveva un’esatta percezione della presenza islamica tutti i venerdì, quando un interminabile corteo di caftani, diretto alla moschea del Parc du Cinquantenaire, attraversava il bellissimo Square Marie-Louise costeggiando il laghetto popolato di anatroccoli.

Ma già si avvertiva qualche segnale d’allarme per i problemi che la convivenza di civiltà tanto diverse poteva suscitare. Ricordo che nelle cassette della posta veniva allora distribuito gratuitamente un giornalino di quartiere, che leggevo con interesse professionale perché alcuni articoli erano scritti nel dialetto di Bruxelles, un curioso impasto di francese e fiammingo, e c’era anche una rubrica dedicata a belgicismi e modi di dire tipici dell’area brussellese. Il giornalino ospitava però anche lettere di protesta: tra le altre, mi colpì quella di una signora (forse una delle tante che portavano a spasso nel parco il cagnolino amorevolmente munito di calosce, cappottino o impermeabile per sfidare l’inclemenza del clima nordico) sconvolta dalla scoperta di un rivolo di sangue che scorreva sul pianerottolo, proveniente dall’appartamento dei vicini che avevano praticato in casa il rito islamico dell’uccisione del montone.

Non se l’era certo inventata, la sgomenta signora belga, la storia della macellazione rituale fai-da-te. Una mattina, passeggiando nel cuore della vecchia Bruxelles, quartiere delle Marolles, vedo un bidone dell’immondizia stracolmo. E che cosa troneggiava in vetta al cumulo di rifiuti? Una pelle di montone appena scuoiato, ancora sanguinolenta. Era già un segno di quanto fosse difficile l’integrazione.

Nell’orgogliosa conservazione delle proprie tradizioni non c’è niente di male, a patto che queste non urtino la sensibilità altrui. Invece per questa sensibilità ferita non c’era che disinteresse e fastidio. Molti di quegli immigrati, che pure usufruivano di aiuti di Stato, che crescevano la numerosa figliolanza col supporto attento degli assistenti sociali, e ricevevano – in caso di perdita del lavoro – un sussidio di disoccupazione allora pari al mio stipendio di professore associato all’università di Firenze, nei confronti della civiltà e della cultura del paese ospitante nutrivano solo disprezzo. Non erano affatto condannati alla ghettizzazione: la sceglievano. Sono passati trentacinque anni, e lo ‘stato sociale’ belga (che di più per l’accoglienza e l’integrazione davvero credo non potesse fare) si trova a oggi a piangere sulle macerie della propria utopia umanitaria.

Belgio, immigrazione islamica, problemi


Lucia Lazzerini


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