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L’alluvione del 4 novembre 1966: l’Arno devastò Firenze e la Toscana con un’onda alta sei metri (Foto)

Firenze: 4 novembre 1966, l'Arno ha invaso la città e due terzi della Toscana
Firenze: 4 novembre 1966, l’Arno ha invaso la città e due terzi della Toscana

Vista dal Piazzale Michelangelo, intorno a mezzogiorno del 4 novembre 1966, Firenze sembrava un enorme lago. Dal quale spuntavano i tetti, i campanili delle chiese, la sagoma di Santa Croce. E, verso sinistra, quella della Cupola del Duomo del Brunelleschi, la Torre d’Arnolfo di Palazzo Vecchio, l’esile campanile di Badia. Tutto era fiume. L’acqua dell’Arno, mescolata al fango e alla nafta fuoriuscita dagli impianti di riscaldamento, era padrona di una città che stava per scomparire come una mitica Atlantide. Avevo 16 anni ed ero fiero della prima tessera che mi ritrovavo in tasca: quella di collaboratore sportivo de La Nazione, firmata appena un mese prima dal direttore diventato poi un mito: Enrico Mattei. Anche il nuovo stabilimento del giornale, fra via Paolieri e viale Giovine Italia, era sommerso. Ne indovinavo il profilo e il tetto di rame verde della tipografia. Abitavo a San Gaggio ed ero salito al Piazzale, a piedi, con il fratello Massimo, più piccino di tre anni, babbo Spartaco (che l’11 agosto ’44 aveva attraversato l’Arno da partigiano, restando ferito a un piede) e alla mamma Ida che il giorno dopo, 5 novembre, compiva 50 anni. Festeggiati, si fa per dire, con il fango fin sopra i capelli. Il prossimo 5 novembre (se n’è andata nel 2004) ne compirebbe 100 tondi tondi. La mamma piangeva. Anche lei aveva  vissuto il passaggio della guerra a Firenze, ma l’alluvione l’atterriva. Veniva dal Casentino e conosceva l’Arno, avendolo visto saltare sui sassi in provincia d’Arezzo. Non avrebbe mai pensato di vederlo diventare gigante cattivo e devastante.

arno-2TORRENTACCIO – Ma guardate, l’immagine di Firenze alluvionata colpì profondamente anche i miei occhi, a quel tempo non ancora avvezzi a tragedie e disastri che poi avrebbero anche fatto parte della mia esistenza professionale. Da giornalista, insieme a mille altri eventi, mi sono dedicato anche all’Arno, con migliaia di articoli e due libri (Caro Arno del 1986 e L’Arno che verrà del 2006). Ho ricostruito gli avvenimenti e ve li propongo nella loro drammaticità. La causa scatenante dell’alluvione? Una pioggia incessante, di 26-28 ore sull’intero bacino. In media 210 millimetri, con punta massima a Badia Agnano (437 millimetri). L’Arno, l’ho scritto tante volte, è un torrente con sfrenate ambizioni di fiume: è il quarto fra i corsi d’acqua italiani con i suoi 241 chilometri di corsa, dal Falterona a Marina di Pisa, ma raccoglie la pioggia di una sola montagna. Quando piove sul Pratomagno, l’Arno si gonfia, quando non piove l’Arno si secca. E’ così da sempre. Dal 4 novembre 1177 (ecco, 4 novembre, occhio a questa data che ricorrerà tante volte nella storia delle mattane del fiume) quasi ogni generazione di fiorentini e toscani ha dovuto sopportare un’alluvione. Dante, a Firenze, ne vide addirittura tre. Ma nel 1966 nessuno ci pensava. Il diluvio precedente era stato nel 1844, quando regnava il Granduca Leopoldo II di Lorena, Canapone. Nel 1966 ci si stava preparando a sbarcare sulla luna, cosa che avvenne appena qualche anno dopo, nel 1969. Ma un’onda alta sei metri si abbattè su Firenze e due terzi della Toscana, dal Casentino alla foce di Marina di Pisa, a una velocità di 4100 metri cubi al secondo

arno-3PONTE VECCHIO – Le notizie del disastro – come seppi quando finalmente potei tornare a La Nazione da collaboratore sedicenne, curioso e stranito – cominciarono ad arrivare la sera del 3 novembre, con una situazione in rapido peggioramento. La centrale operativa dei carabinieri, a Firenze, aveva ricevuto pressanti richieste d’aiuto dal Valdarno. Alle dighe di Levane e La Penna si tenevano febbrili consultazioni, mentre dalle paratìe usciva una mostruosa massa d’acqua calcolata, più o meno, in 2100 metri cubi al secondo. L’Arno cresveva a dismisura. I tempestosi affluenti cominciavano ad andar di fuori. La gente saliva sui tetti. Venivano svegliati prefetti, sindaci, ingegneri del genio civile. La strada fra Figline Valdarno e Incisa era ricoperta da due metri d’acqua. Completamente isolata, coi pochi soccorsi che erano riuscii ad arrivare, la gente del paese, sindaco e giunta in testa, aveva iniziato un massacrante lavoro riuscendo a portare in salvo tutte le persone, mentre una parte del paese era già sommersa. Nei poderi e nelle fattorie, tutti scappavano in alto, nelle colombaie, di fronte al mare d’acqua che avanzava. Tutti urlavano, sapendo che nessuno poteva sentirli. Ma anche a Firenze cominciavano ad aver paura. Il prefetto, De Bernart, correva con i carabinieri verso le zone già allagate. Sul Ponte Vecchio, scosso dalla piena che ormai passava a meno di un metro sotto le arcate, gli orafi, avvertiti dalle guardie di notte, cercava di portare via le gioie più preziose.

EROE – La quantità d’acqua è eccezionale: un idrometro a monte di Firenze ne segnalava sei metri e novanta, appena quarantacinque centimetri sotto il massimo delle piene degli ultimi anni. L’Arno saliva, saliva. Faceva paura! All’Anconella gli impianti dell’acquedotto erano ricoperti dall’acqua. E che alle una avevano staccato i motori. Dalla cronaca di Firenze de La Nazione avevano esortato l’operaio di turno, Carlo Maggiorelli, che aveva risposto alla loro chiamata, a scappar via. Ma lui non poteva lasciare gli impianti senza sorveglianza. Un eroe. Non molto più tardi venne stampato il sommario ossia la locandina de La Nazione del 4 novembre 1966: «L’Arno straripa a Firenze”. Poi la situazione precipitò. Mentre in tutt’Italia si celebrava il 4 novembre, festa delle forze armate e la vittoria nella guerra 1915-18 contro l’Austria-Ungheria, la valanga d’acqua rotolava senza freni su Firenze. L’Arno aveva rotto a Bellariva: pareva un’ironia macabra quel nome, pronunciato nella tempesta. Dalle cinque alle sei, c’erano state consultazioni febbrili fra il prefetto e i comandi militari. L’acqua aveva debordato e allagava le strade vicine al fiume. Le fogne saltavano. Via dell’Agnolo era già un torrente. Via de’ Bardi era investita da un’onda diretta e dal rigurgito del Pote Vecchio. La pavimentazione stradale scoppiava nel lungarno Ferrucci, nel lungarno Serristori, nel lungarno delle Grazie. A La Nazione, il nuovo stabilimento era stato inaugurato solo quattro settimane prima. Ora giornalisti e tipografi avevano il fango alla cintola. Le rotative, nuove di zecca, non tutte già adoperate, erano sepolte da qualche metro di una poltiglia fatta di acqua, fango e nafta. Qualche operaio era accorso e piangeva.

Piazza del Duomo invasa dalle acque nel 1966
Piazza del Duomo invasa dall’acqua dell’Arno nel 1966

DUOMO – Il rione di Gavinana si trovava in condizioni disperate. Ma dappertutto esplodevano drammi non certo minori. In Borgo Ognissanti, l’ospedale di San Giovanni di Dio sprofondava nella melma. L’Arno era entrato negli scantinati, aveva invaso il piano terra e dilagava nelle corsie. Medici suore infermieri correvano: ognuno con il suo malato sulle spalle, febbricitante e terrorizzato. Firenze per metà era un lago. Le isole asciutte aggrumate di gente e automobili. Gli stagni con delle case assurde emergenti dai terzi piani. I monumenti immersi nell’oleosa fanghiglia. La gente sui tetti. Il silenzio. Le grida. Quindi un’altra ora fatidica: le 9,45. L’Arno sfonda e irrompe in piazza del Duomo. Poco è la volta del neuropsichiatrico di San Salvi. In un’ora l’acqua sale di tre metri. I ricoverati sono in uno stato i profonda eccitazione, non si sa come calmarli. I medici li ammassano ai piani superiori ma mancano aiuti, l’ospedale è isolato. Bisognerà aspettare la notte perchè i vigili del fuoco, con un battello, riescano a superare fango e corrente e a portare le medicine. Così all’ospedalino Meyer. Così a Montedomini: poveri vecchi soli, una gran tristezza nel cuore. Più tristezza che freddo. Quattro povere cose da salvare, infilate in una borsa di plastica o in una valigia scorticata. Poi venne notizia dei primi morti. Gavinana, al solito, era la più colpita. L’acqua dilagava alle Cascine, anche nell’ippodromo: dove i garzoni di stalla mettevano in salvo i purosangue, i cavalli più pregiati, lasciando gli altri a un’orribile morte. L’Osmannoro era un lago, come mille anni fa. Seppi dopo dell’incredibile dramma di un babbo che si vide portar via dall’acqua la figlia di tre anni. Si chiamava Marina. La ritrovarono dopo 18 giorni e in un cunicolo di fango.

Piazza Santa Croce, il 4 novembre 1966, mentre l'acqua si stava ritirando
Piazza Santa Croce, il 5 novembre 1966, mentre l’acqua si stava ritirando

SAN MARCO – Alle 6 di sera del 4 novembre, piazza San Marco era un lago in tempesta. Lo alimentava un tributario impetuoso e vorticoso, che proveniva da piazza dell’Annunziata, lambiva il basamento della chiesa e volgeva precipite lungo via Cavour, verso il Duomo, Al suo scroscio sinistro si mescolava un immenso e sommesso brusìo umano. I fiorentini rimasti nella parte risparmiata dall’alluvione commentavano a bassa voce. Non si sentivano pianti, né lamenti. In quelli che potei vedere da vicino, o con cui potei parlare, trovai una trepida ansia per le sorti di persone rimaste nella parte della città invasa dalle acque. E un doloroso stupore per quello che era accaduto. Nulla di più. Né allora, né a tarda sera, né nella notte – quell’indimenticabile notte trascorsa in lugubre veglia sui bordi dell’altra città, di quella città che l’acqua ci aveva fatta lontana, misteriosa, inaccessibile come il mondo abitato di un altro pianeta, e pure ci sfiorava con l’alito, con il respiro affannoso – ci fu una sola scena di disperazione.

RISCOSSA – La mattina del 5 novembre l’Arno si era ritirato dalle vie del centro, lasciando la città avvolta in una ripugnante coltre di fango e nafta. Per i fiorentini era l’ora della riscossa. Gli uomini, le donne, i vecchi, i ragazzi sembravano appartenere a una razza di combattenti. Vagavano in un’immensa città morta, abitata da uomini vivi che volevano vivere. Volevano far rivivere la loro città, se la tenevano sulle braccia come una mamma angosciata iene in braccio il bambino malato, che non dà segni di vita, e guarda se respira ancora, e cerca di rianimarlo come può. Il brusìo della sera avanti era cessato. Tutti tacevano. Tacevano e lavoravano. I loro arnesi erano le scope e i secchi. I secchi e le scope. Chi non aveva secchi né scope s’era forgiato un rudimentale aggeggio di legno, una sorta di ruspa a mano, mettendo insieme quello che restava delle finestre, delle porte e delle sedie squassate dall’acqua. E lavorava con quello. Con quelle scope, con quei secchi, con quegli arnesi i fiorentini stavano aprendosi un primo varco, una prima nicchia nella montagna di fango trasudante acqua sotto la quale erano state sepolte le botteghe e i seminterrati, i primi piani e i piani rialzati della Pompei fiorentina. Attraverso quei varchi, da quelle nicchie, sarebbero uscite, qualche ora dopo, le carcasse sventrate dei banchi di vendita, degli stipi, dei mobili e delle masserizie perdute nel diluvio.

Un'immagine dell'alluvione di Firenze del '66
Un’immagine dell’alluvione di Firenze del ’66

TESTIMONIANZA – Era in atto la prima grande opera di soccorso a Firenze folgorata e caduta. In quell’opera erano impegnati i fiorentini e solo i fiorentini. Facevano tutti le stesse cose, silenziosamente come se fossero i soldati di un unico esercito agli ordini di un unico comandante, invisibile e misterioso. Il comandante, il capitano Nemo che li obbligava a quel lavoro, e con quell’ordine, con quella uniformità e con quella fatica, era l’amore per Firenze. Il popolo più diviso, più discorde, più litigioso del mondo s’era trovato fraternamente unito nella grande pietà di Firenze, e lavava e leniva le ferite aperte nel corpo straziato e dolorante di Firenze caduta a terra. La maggior parte delle migliaia, delle decine di migliaia di persone mobilitate dall’amore di Firenze in quella grande opera di prima assistenza avevano vissuto la giornata terribile asserragliate nelle case dei vicini dei piani superiori. Quelli di loro che l’alluvione aveva isolato altrove, all’asciutto o al bagnato, non avevano visto che una infinitesima parte dell’immenso guasto di Firenze.

L'alluvione di Firenze
L’alluvione di Firenze del 4 novembre 1966

FIORENTINI – Eppure tutti, confusamente e istintivamente, sentivano che Firenze, la loro Firenze, la vera Firenze, la Firenze antica e moderna, dei piccoli commercianti e degli artigiani, delle botteghe e delle “buche”, dei mercatini e delle bancarelle, del Porcellino e di piazza dei Ciompi, questa cara Firenze doveva essere tutta così, tutta ridotta a uno stesso grado di squallore e di desolazione, né più né meno del piccolo campione che stava sotto i loro occhi. E del pari, confusamente e istintivamente, sentivano che quella loro fatica, in quelle disperate condizioni, con le scope, i secchi e le rudimentali ruspe a mano costruite con il legno delle seggiole e delle finestre sfasciate, era il primo atto di assistenza a Firenze. E il primo segno della volontà di far rivivere Firenze. Il loro teatro di battaglia era l’abitazione, o l’abitazione del vicino; era la propria bottega; o la bottega del vicino; e il tratto di strada, di marciapiede, antistante la propria casa e la propria bottega, o la casa e la bottega del vicino, Noi eravamo tornati a San Gaggio dopo il pellegrinaggio al Piazzale Michelangelo. Ma scattò anche i noi la molla della solidarietà, la voglia di andare a dare una mano, la voglia di aiutare. E, nel mio caso, anche la voglia di raccontare. Che cinquant’anni dopo, e mi scuso per essere stato un po’ lungo, non mi ha ancora abbandonato.

 

 

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Sandro Bennucci

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