Il ’68 cinquant’anni dopo: ricordo di un decennio di contestazione e terrorismo che in Italia ha causato anche disastri

Il cinquantesimo compleanno del ’68 si annuncia come una festa goliardica di canuti reduci e di nostalgici, molti dei quali insistono nel non riconoscere i guasti (terrorismo e omicidi) che hanno colpito tragicamente, soprattutto Italia e Germania, dove si sono lamentate centinaia di vittime del fuoco eversivo di brigatisti rossi, banda Bader Meinhoff e simili. Molti dei protagonisti di quegli anni, scontate pene (spesso ridotte), sono tornati all’onore delle cronache grazie alla compiacenza della politica e dell’intellighenzia di sinistra. Un vero scandalo italiano. In Germania i terroristi della Bader Meinhoff sono morti suicidi. In Francia, il presidente Macron, che non ha vissuto quegli anni, essendo nato un decennio dopo, ha proclamato che la République festeggerà il Maggio 1968 (dal quale ebbero origine i movimenti), come fa regolarmente con la Rivoluzione del 1789.

Ma i motivi di festeggiare quegli anni – almeno in Italia – mi restano oscuri, anzi credo ci sia poco da festeggiare perché – pur riconoscendo che alcune critiche al sistema potevano avere un fondamento – da lì è nata la decadenza sociale, morale e culturale del nostro Paese. Il ’68 ha distrutto quanto vi era di solido, lasciando macerie senza contribuire a ricostruire molto: buona parte dei guasti di cui paghiamo pegno oggi sono figli di quella stagione. Il movimento ha messo in evidenza, anticipando i tempi, l’esigenza di acquisire spazi di libertà, ma proprio quel poco o tanto di libertà, di diritti individuali e di equità sociale rivendicato in quegli anni, l’avremmo comunque conquistato anche senza il contributo della «contestazione».

A sentire il racconto dei reduci del ’68 e degli Anni di piombo, l’Italia veniva dipinta come un Paese dittatoriale dominato da forze reazionarie, quando invece governava il centro-sinistra, con Aldo Moro premier e Pietro Nenni suo vice. Molte riforme, dal divorzio allo Statuto dei lavoratori alle leggi per il Welfare, erano già in discussione in Parlamento e sarebbero state approvate in tempi forse più lunghi, ma sarebbero andate in porto. Senza bisogno che il Paese venisse sconvolto da tensioni e da scontri che, diversamente dagli altri paesi percorsi dalla contestazione, durarono quasi senza soluzione di continuità per più di un decennio. In ambito universitario e scolastico fu distrutto il ruolo e il prestigio dei docenti, l’egualitarismo e le sommosse fecero da incubatore ai drammatici Anni di piombo, al terrorismo che insanguinò con le sue gesta le piazze e le strade d’Italia, uccidendo politici, magistrati, esponenti delle Forze dell’ordine, professori universitari, sindacalisti.

Non ci fu una reazione politica adeguata, gli esecutivi, sempre retti dall’alleanza tra democristiani e socialisti, concessero tutto o quasi ai movimenti, stimolando così la crescita e l’arroganza di agitatori che reclamavano più «giustizia». I danni più gravi furono prodotti in tre settori: quello dell’istruzione, quello della politica, e quello del rapporto Stato-cittadino. La scuola italiana negli anni Sessanta aveva bisogno, più che riforme, di aggiustamenti, necessari a un paese diventato una società di massa. Ma il suo corpo era sano, da quello elementare fino all’Università. Il governo Moro stava predisponendo una legge, detta Gui dal nome del ministro dell’Istruzione, che sembrava ottima ed equilibrata, ma fu affossata dalla convergenza d’interessi tra le corporazione dei baroni e i movimenti, che vi si opposero violentemente occupando le Università già nel 1966. Dopo aver ritirato il disegno Gui, il potere politico non fu più in grado di elaborare nulla di sensato per molti anni nel campo dell’istruzione, che divenne terreno di scorribanda di tutti gli estremismi e dell’egualitarismo sindacale, e fu dominato dai partiti della sinistra.

Il ’68 fece così da rumoroso amplificatore alle rivendicazioni di «liberazione» da quasi tutto. La richiesta di maggiore equità si trasformò in egualitarismo, la difesa e la tutela dei diritti si mutò in «dirittismo». Si affermò l’idea che ai cittadini tutto fosse dovuto dallo Stato, senza beninteso che ci fossero adeguate adeguate contropartite in termini di doveri. E’ una filosofia che perdura anche oggi e che le associazioni cattoliche e di sinistra, che assistono i migranti, instillano subito nei nuovi arrivati, che pretendono di avere tutti i diritti, senza alcun dovere nei confronti di chi li ospita suo malgrado. Si tratta di una nefasta amplificazione dei diritti anche al di là del dettato costituzionale. Come il «diritto alla casa» (che spingeva alle occupazioni e le legittimava e adesso viene applicato proprio nei casi dei migranti), il «diritto a aumenti salariali», anche quando l’impresa stava per fallire, il «diritto alla salute», cioè sanità per tutti, senza guardare il reddito e le condizioni sociali, il «diritto allo studio», quindi tasse universitarie basse o inesistenti, con la bocciatura praticamente bandita nelle scuole superiori e il 18 politico nelle università. Come abbiamo rilevato, molte di queste rivendicazioni sopravvivono ancor oggi, portate avanti da centri sociali, movimenti di sinistra, ma anche da partiti ed esponenti politici, che in tempi elettorali promettono di tutto e di più.
La filosofia del Sessantotto quasi ovunque (tranne che in Italia) appare oggi lontana e superata, tanto che è quasi più facile, in giro per il mondo,che siano condivisi i giudizi sferzanti di un Raymond Aron sulla «maratona delle chiacchiere» o sui «rivoluzionari da aula magna», mentre ormai quasi nessuno, salvo i reduci nostrani, si emoziona al pensiero di quegli anni formidabili, per dirla con la frase tipica dei campioni della nostalgia sessantottina, che spesso rifiutavano le istituzioni politiche, sociali ed economiche, grazie alla cui azione era stato invece conquistato il benessere raggiunto dall’Italia nel dopoguerra. Nella democrazia, nei partiti, nell’università, nella fabbrica i contestatori riconoscevano solo tratti repressivi e autoritari.

La critica più dura e fondata al ’68 è venuta, cinquant’anni dopo, dal pulpito più autorevole, da Papa Francesco, il quale parlando al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede per la tradizionale cerimonia degli auguri per il nuovo anno, ha detto chiaramente: «Nel corso degli anni, soprattutto in seguito ai sommovimenti sociali del Sessantotto, l’interpretazione di alcuni diritti è andata progressivamente modificandosi, così da includere una molteplicità di nuovi diritti, non di rado in contrapposizione tra loro. Ciò non ha sempre favorito la promozione di rapporti amichevoli tra le Nazioni, poiché si sono affermate nozioni controverse dei diritti umani che contrastano con la cultura di molti Paesi. Infatti, non tutti si sentono rispettati nelle proprie tradizioni socio-culturali, ma piuttosto trascurati di fronte alle necessità reali che devono affrontare». Proprio il contrario di quello che gli agitatori del ’68 volevano raggiungere. E’ questa la constatazione più autorevole e fondata del fallimento della contestazione sessantottina e delle sue nefaste conseguenze. E per una volta mi sento d’essere pienamente d’accordo con il Sommo Pontefice.
