Dirigenti pubblici: la ministra Madia cambia il metodo di valutazione dei concorsi

ROMA – La ministra Madia, che fa parte di un governo in scadenza, insiste con tenacia degna di miglior causa nell’opera di riforma della pubblica amministrazione. Nonostante il fatto che non si sia riusciti a realizzare una riforma complessiva, il ministero della Pubblica amministrazione prova comunque a incidere sui dirigenti degli uffici pubblici e dei ministeri. E lo fa cambiando il metodo di valutazione dei concorsi, o meglio rivedendo i punteggi massimi che possono essere accumulati dagli aspiranti capi grazie a lauree, dottorati, master, meriti di carriera, pubblicazioni scientifiche e abilitazioni professionali. Magari pensando in questo modo di poter incidere sul futuro reclutamento dei dirigenti.
Tutti questi titoli “su carta” – stando al nuovo decreto in circolazione firmato da Marianna Madia – non possono valere più del 40% del voto finale. E, dunque, nella valutazione viene dato più spazio agli esami, in quanto le prove scritte e il colloquio orale conteranno almeno per il restante 60%. Attualmente non ci sono soglie e ogni amministrazione si regola a modo suo, ma nella prassi comune i titoli possono arrivare a rappresentare anche l’80-90% della valutazione.
I TEMPI
Prima che il nuovo concorso a punti entri in vigore, però, bisogna aspettare ancora alcuni passaggi tecnici, ma intanto sembrerebbe essere arrivato il parere positivo del Consiglio di Stato. Una goccia nell’oceano se si pensa a quanto avrebbe inciso la riforma della nuova dirigenza, uno dei punti cardine della riforma Madia della Pubblica amministrazione, se la Corte costituzionale non l’avesse messa in discussione e fosse diventata legge. Per i giudici costituzionali, nello scrivere le norme sulla Pa, il governo non aveva tenuto nella giusta considerazione le prerogative delle Regioni, legiferando anche su temi e argomenti di loro competenza.
Dirigenza inclusa. Il tempo per rifare tutta la riforma non c’è stato, in quanto le deleghe sono scadute poco dopo la sentenza arrivata a fine 2016, e così per più di un anno di “mandarini” e capi non se n’è più sentito parlare.
Ora, però, il ministero fissa alcune norme generali per affrontare i prossimi concorsi. L’intento – esposto nella relazione illustrativa che accompagna il provvedimento – sarebbe quello di allagare l’ingresso dei piani alti delle amministrazioni pubbliche ai «giovani dirigenti meritevoli». Non solo, attribuire più peso agli esami veri e propri, limitando i punti che si possono accumulare con i titoli pregressi, darebbe più chance ai funzionari già impiegati negli uffici pubblici di salire di posizione.
I NUMERI
Ma veniamo ai numeri. Nei concorsi, almeno secondo il format classico – che può variare a seconda dell’amministrazione – si va da un minimo di 120 punti a un massimo di 300, suddivisi in tre prove, due scritti e un colloquio orale. Come detto, nella valutazione finale del concorso gli esami sono decisivi, ma la fetta numerica che spetta al curriculum non è trascurabile. Entrando nel dettaglio, a titoli accademici, come lauree specialistiche o dottorati di ricerca, possono essere attribuiti massimo 50 punti. Un’altra dozzina viene conteggiata con le abilitazioni professionali, ma solo a queste due condizioni: che sia stato superamento un esame di Stato e che siano attinenti alle materie trattare dalle prove d’esame.
Altri otto, invece, possono essere attribuiti a chi ha firmato pubblicazioni scientifiche. Gli altri 50 punti – che portano alla soglia massima del 40% – sono dedicati ai meriti sul lavoro, ossia i titoli di carriera. C’è però da fare dei distinguo, in quanto verranno presi in considerazione solo gli incarichi dirigenziali svolti prima del concorso all’interno dell’amministrazione pubblica e in base alla loro durata. Anche l’originalità dei lavori svolti avrà il suo peso. E, infine, il voto finale può salire per chi ha è stato impiegato in servizi militari di leva più importanti, ovvero per i quali è richiesta la laurea.
