Pensioni d’oro: un esperto spiega perché la maggior parte sono giustificate da contributi
Un lungo e documentato articolo di Sandro Gronchi, pubblicato il 19 ottobre sul periodico specializzato lavoceinfo.it, spiega perfettamente come la maggior parte delle pensioni d’oro siano meritate e come il taglio previsto dal governo gialloverde sia, di conseguenza, da considerarsi illegittimo. Lascio la parola, anzi la penna, a Sandro Gronchi, che insegna Economia Politica e Modelli di Welfare nell’Università di Roma ‘La Sapienza’ ed è stato a lungo consulente di vari ministri del tesoro, del Cnel, della Banca d’Italia, di banche, Associazioni e Fondazioni.
«Le pensioni d’oro sono meritate per le ragioni ricordate su Il Sole‑24Ore del 28 luglio, soprattutto riconducibili al tetto flessibile imposto alla retribuzione pensionabile, e alla longevità delle carriere tagliate dal tetto di 40 anni imposto all’anzianità contributiva. Pregiudizialmente convinta del contrario, il 6 agosto la maggioranza ha presentato un disegno di legge per correggerne il demerito. (…)
Un utile punto di partenza è un argomento apparentemente lontano. Andrea (A) e Bruno (B) vanno in pensione nel 2019 avendo percepito le stesse retribuzioni nei 43 anni precedenti, e quindi versato gli stessi contributi. A compie 67 anni e la sua pensione è pertanto di vecchiaia, mentre B è più giovane (avendo cominciato a lavorare prima) e la sua pensione è quindi d’anzianità. Rispettando le statistiche, B ha una moglie più giovane rispetto a quella di A, cosicché la sua pensione (compresa la reversibilità) durerà più a lungo a maggior ragione. In base alla riforma Fornero, entrambe le pensioni hanno due quote: una retributiva, maturata nei 36 anni che precedono il 2012, e l’altra contributiva maturata nei seguenti 7.
La quota contributiva di B è inferiore a quella di A perché ottenuta moltiplicando un uguale montante contributivo per un coefficiente di trasformazione più piccolo (in ragione dell’età più giovane). È giusto così perché le due prestazioni contributive devono essere equivalenti e la più lunga deve quindi avere un importo annuo minore. Le quote retributive sono invece uguali: ammontano (semplificando) al 72 per cento di identiche retribuzioni pensionabili (il 2 per cento all’anno per 36 anni). Pertanto, la prestazione retributiva di B è superiore perché la maggior durata non trova compensazione in un minore importo annuo. Per rimediare, occorre che la quota retributiva di B sia ridotta della stessa percentuale di cui quella di A è più corta. Ad esempio, se la seconda dura il 10 per cento in meno, occorre ridurre del 10 per cento la prima. Così facendo, le due prestazioni retributive diventano equivalenti come quelle contributive (benché solo queste ultime siano commisurate ai contributi versati).
Senza entrare in dettagli complessi, occorre infine dire che la correzione è tecnicamente fattibile moltiplicando la quota retributiva di B per il quoziente fra il coefficiente di trasformazione usato per calcolare la quota contributiva dello stesso B e quello usato per calcolare quella di A. Generalizzando, la quota retributiva delle pensioni d’anzianità deve essere moltiplicata per il quoziente fra il coefficiente di trasformazione dell’età alla decorrenza e quello dell’età di vecchiaia (67 anni).
Da un lato, il governo non sembra preoccuparsi di privilegi e oneri quando rilancia la pensione d’anzianità consentendo agli ultra-sessantaduenni di accedervi dopo 38 anni di contributi, oppure quando accarezza l’idea che i più giovani possano farlo dopo 41. Dall’altro lato, la preoccupazione sembra assalirlo quando vuole assoggettare alla correzione attuariale, sopra descritta, la quota retributiva delle pensioni d’anzianità superiori a 90 mila euro annui lordi. Non sembra trattarsi di schizofrenia, ma di insipienza. Infatti, dalla relazione che lo accompagna, si evince che il disegno di legge sulle pensioni d’oro è fondato sulla convinzione, grossolanamente errata, che la correzione attuariale serva al ricalcolo contributivo. Se anche fosse, il ricalcolo riguarderebbe non tutte le pensioni d’oro, ma solo quelle d’anzianità. Perciò vien da chiedersi se il governo abbia ragioni per ritenere che quelle di vecchiaia sono meritate.
Sta di fatto che il provvedimento non potrà consentire risparmi di spesa perché i destinatari delle pensioni d’oro già tendono a procrastinare il pensionamento fino all’età di vecchiaia, e il primo effetto del provvedimento sarà di incoraggiarli ulteriormente in tal senso.
Nel medio termine, qualche risparmio potrebbe venire dall’ancor più pasticciata parte retroattiva del Ddl, che estende la correzione attuariale alle pensioni d’oro già in essere la cui età alla decorrenza sia inferiore a un’età convenzionale che, a partire da 67 anni nel 2019, decresce a ritroso nel tempo in base all’aspettativa di vita. Perciò alla correzione saranno assoggettate anche pensioni di vecchiaia decorrenti da anni in cui l’età pensionabile è stata inferiore a quella convenzionale. Considerata la giungla delle età pensionabili cui la riforma Fornero ha posto rimedio, può darsi il caso che alcune pensioni di vecchiaia siano tagliate e altre no benché decorrenti dallo stesso anno.
La maggioranza sembra ora dividersi, tant’è che aleggiano interventi d’altra natura, rivolti alla generalità delle pensioni d’oro, comprese quelle di vecchiaia. Tuttavia, l’ennesimo contributo di solidarietà sconfinerebbe oltre il limite della temporaneità ammessa dalla Corte Costituzionale, mentre la de‑indicizzazione si risolverebbe in un contributo implicito nella forma di mancato reintegro del potere d’acquisto eroso dall’inflazione.
In entrambi i casi, il sacrificio non sarebbe legittimato dalla sua destinazione. Infatti, non si dimentichi che il trattamento minimo fu abolito dalla riforma Dini: ad esaurimento, continueranno a beneficiarne le pensioni miste, mentre quelle interamente contributive non ne avranno più diritto. Fu una scelta corretta perché lo stato non deve assistere i pensionati ma i cittadini. Per consentirlo, fu coniato l’assegno sociale. I rilevanti interventi assistenziali che il governo sta disegnando non devono compromettere questo quadro di chiarezza. Perciò deve essere potenziato l’assegno sociale e non il trattamento minimo. Dopo che il primo avesse superato il secondo, ad averne diritto sarebbero anche i percettori di quest’ultimo. A finanziare il nuovo assegno sociale, che nulla vieta di chiamare pensione di cittadinanza, deve essere la fiscalità generale e non i pensionati d’oro. Diversamente, il contributo di questi ultimi avrebbe una destinazione esterna al perimetro previdenziale in contrasto con la natura solidaristica. Tantomeno, alla solidarietà dei pensionati d’oro si può fare appello per finanziare la discesa dell’età media di pensionamento ancor più al disotto della media europea».
Ecco spiegate le ragioni dell’illegittimità di un provvedimento non solo di taglio delle pensioni d’oro, ma anche dei contributi di solidarietà. Ma purtroppo vediamo cge Di Maio e Fico soprattutto continuano a ribadire che taglio di vitalizi e di pensioni d’oro restano obiettivi primari del governo, e andranno incontro a una valanga di ricorsi e contenzioso non soltanto davanti alla magistratura odinaria, contabile e amministrativa in Italia, ma anche davanti alle competenti Corti europee.
