Movimenti collettivi di protesta e repressione. Il parere di un esperto
Mentre molti, compresi Papa Francesco, Mattarella, Parlamento Europeo e Commissione, alzano peana nei riguardi della giovane attivista ambientalista, Greta Thunberg, e delle proteste oceaniche e ripetute dei suo seguaci e dei suoi fans, ci sono studiosi che analizzano questi fenomeni, ma si preoccupano di valutarne anche le conseguenze e le reazioni possibili dell’establishment.
Dopo le proteste l’anno della repressione? E’ la domanda che si pone Alberto Martinelli, professore dell’Università di Milano e consigliere dell’Ispi in uno scritto per il dossier dell’Istituto di politica internazionale Il mondo che verrà: 10 domande per il 2020.
«I movimenti collettivi di protesta sono un fenomeno costante e ricorrente della politica mondiale – scrive Martinelli – Quelli che negli ultimi mesi hanno riempito piazze in molte parti del mondo, da Hong Kong al Libano, da Santiago del Cile all’Iraq, da Barcellona all’Iran, sono allo stesso tempo simili e diversi per cause ed effetti: svariati gli eventi scatenanti, le rivendicazioni e le forme della protesta, che spesso nascono come reazione a decisioni prese dai governi. Sono simili – spiega l’esperto – nel senso che in ogni mobilitazione di massa si formano nuove identità collettive, problematiche, dinamiche che, radicate nella percezione di comuni interessi, esprimono un disagio diffuso e sfidano le istituzioni e i detentori del potere. Parzialmente simili e variamente combinate sono le questioni al centro delle proteste: le disuguaglianze economiche e sociali, la corruzione dei politici, i privilegi dei potenti, la violazione dei diritti umani e politici, le rivendicazioni autonomistiche».
«Nelle democrazie funzionanti si verifica il ciclo della protesta e della rappresentanza. I processi di trasformazione sociale danno vita a movimenti che si mobilitano per difendere interessi, rivendicare diritti e affermare identità, generalmente provocano reazioni non violente e risposte riformiste di partiti e altri attori della rappresentanza politica, che anche se non attuano il cambiamento richiesto modificano comunque il contesto di riferimento e i rapporti di potere. Nei regimi non democratici (ma anche nelle democrazie bloccate), in cui non esistono né pluralismo organizzato né canali consolidati di rappresentanza politica, la risposta del potere è violentemente repressiva, facendo sì che la protesta possa assumere anch’essa connotati sempre più violenti, innescando una spirale protesta-repressione. Che prosegue finché il movimento non viene ridotto al silenzio (covando sotto la cenere fino alla nuova esplosione) o, più raramente, non si verifica uno sbocco rivoluzionario», conclude l’esperto dell’Ispi.
L’Italia del Conte bis rientrerebbe nella prima categoria di democrazie, ma si tratta di un tipo di democrazia per così dire anomala, dove non si è capaci nè di dare il via a riforme che sanino le irregolarità denunciate, né d’intervenire con la repressione. Si tira semplicemente a campare, secondo lo stile del premier Giuseppi e della maggioranza, gialloverde o giallorossa che sia.
