Internet: il futuro delle notizie sarà a pagamento. Gli errori degli editori e la tesi del professor Masi

Si dice da tempo che Internet non può essere gratis. Soprattutto che le notizie devono avere un costo, poichè sono il frutto del lavoro di professionisti, ossia i giornalisti, che non possono essere condannati alla cassa integrazione o, peggio ancora, alla precarietà. Situazioni oggi attualissime e pesantissime.
Si parla dei social a pagamento – ma ripeto, in particolare delle notizie – quando, come sindacato dei giornalisti, siamo costretti a firmare al Ministero del lavoro pesanti casse integrazioni e prepensionamenti per testate storiche arrivate a vendere un decimo di quanto accadeva venti anni fa. E quindi non più in grado di sostenere i costi di una redazione senza minacciare licenziamenti.
Personalmente, da giornalista con oltre cinquant’anni di professione sul campo (dal piombo della tipografia de La Nazione all’online di Firenze Post) sostengo che la colpa della situazione attuale sia principalmente degli editori, illusi di poter mantenere la loro rendita di posizione, che si basava sulle vendite in edicola e sulla pubblicità. Crollo verticale, da un paio di decenni, di tutto questo.
Gli editori, e lo dico senza voler offendere quella che è, da decenni (prima come componente del Comitato di redazione de La Nazione, ora da presidente di Assostampa Toscana) la mia controparte, non sono stati imprenditori lungimiranti: sono andati sul web senza prima preoccuparsi del ritorno economico. Che avrebbe salvaguardato la loro impresa, ma anche l’altissima professionalità di chi confeziona, con competenza e passione, il loro prodotto.
Viceversa, da oltre trent’anni, firme eccellenti, valore aggiunto delle testate, sono state mandate in prepensionamento, attraverso la legge 416, per tenere in piedi i bilanci. Anche oggi, se mandi via in anticipo (mediamente a 62 anni) tre giornalisti che hanno, complessivamente, un costo aziendale (attenzione: costo aziendale con contributo eccetera, non busta paga) di 15 mila euro, devi assumerne uno che, in partenza, costa poco più di 2mila euro al mese (ripeto: costo aziendale).
Imprenditori di altri settori sarebbero stati più attenti: al momento di cambiare rotta, si sarebbero preoccupati di mantenere i conti in equuilibrio: in particolare avrebbero trovato il modo di farsi pagare in altro modo, guadagnando e salvaguardando occupazione e qualità.
Ma attenzione, questo non è un articolo del sindacato, tanto meno scritto in sindacalese, vocabolario che non mi è mai appartenuto nonostante i decenni di trattative. Sono stato portato a scriverlo dopo aver letto il parere, su “Italia Oggi”, del professor Mauro Masi, delegato italiano alla proprietà intellettuale.
“Siamo stati buoni profeti – scrive Masi – quando pochi mesi fa Elon Musk decise di far pagare agli utenti di Twitter la cosiddetta spunta blu, il meccanismo necessario per avere un profilo verificato sul social, sottolineammo che questo avrebbe cambiato il mondo della rete e presto sarebbe stato seguito da altri gestori. Cosi è stato”
E ancora: “Marc Zuckerberg ha recentemente annunciato un provvedimento simile per Facebook e Instagram. Forse si apre per Internet l’era dei social a pagamento ed è, a suo modo, un passaggio rivoluzionario. Che, tra l’altro, nel nostro piccolo, qui sosteniamo da anni e per molti motivi, non ultimo quello che un accesso a pagamento è sicuramente un accesso più consapevole e attento e, quantomeno, dovrebbe poter scoraggiare chi accede ai social in maniera patologica”.
E’ vero che Mauro Masi parla soprattutto di coloro che popolano i social dalla mattina alla sera. Ma sono le notizie a scatenarli, a farne “leoni da tastiera”, pronti a propagare “fake news”, ossia quelle notizie incontrollate, e talvolta incontrollabili, che distorcono la realtà e, dal mio punto di vista, portano soltanto fuori strada.
“C’è poi da dire – aggiunge Masi – che, in realtà, i social non sono mai stati del tutto gratuiti o meglio lo sono all’apparenza perché, seppure non paghiamo un prezzo esplicito per stare sui social, esiste, ed è sempre più evidente, un costo occulto, che è quello che scontiamo in termini di riduzione del livello della privacy. Difatti, siccome non li paghiamo direttamente, Facebook e soci sono poco incentivati a trattare i nostri dati con la cautela e con il rispetto dovuto. L’eventuale insoddisfazione degli utenti imbufaliti (vedi le reazioni al furto dei dati fatto da Cambridge Analytica attraverso Facebook) è molto meno temuta dai grandi gestori delle piattaforme che non quella dei clienti veri e propri (cioè quelli che portano i soldi: le agenzie di pubblicità e similari). Al limite, garantire la totale (o comunque la più alta possibile) riservatezza dei nostri dati rappresenta un ostacolo alla redditività dei social”.
“È stato calcolato – afferma alla fine Masi -che Facebook potrebbe ottenere lo stesso fatturato che ha realizzato nel 2021 facendo pagare agli utenti un abbonamento molto basso, intorno ai 14 dollari l’anno, non casualmente è, più o meno, quello che chiede ora Zuckerberg per la spunta blu. Insomma, il dado è tratto e la strada è quella in qualche modo ipotizzata fin dall’inizio dai padri fondatori di Internet e cioè della trasformazione della natura dei social da piattaforma di condivisione a servizio”.
Aggiungo che, riguardo ai giornali online, gli editori potrebbero cambiare rotta: invece di pretendere l’abbonamento, mensile o annuale, basterebbe far pagare, di volta in volta, la lettura delle notizie. Naturalmente penso a pochi centesimi. Ma sarebbero pochi centesimi ben spesi: perchè i lettori avrebbero la certezza di avere informazioni scritte in maniera professionale e, soprattutto, verificate.
