Libri: “Sono Bianca, racconto l’argento di mio nonno Brandimarte”

E’ bella, Bianca Guscelli, figlia di Stefano, già calciante di Santo Spirito, e nipote di un mito: Brandimarte, capace di scrivere una storia su ogni pezzo d’argento che forgiava, incideva, cesellava. Lei, va detto subito per completarne la figura, ha anche testa, cuore, mani. Oltre a una smisurata forza di volontà: quella che nel 2016 le permise di riacquistare da un fallimento il marchio del nonno, identità della famiglia e dell’officina.
Nel libro “Brandimarte, una storia italiana” (editore Franco Cesati), Bianca parte da lì dal fatidico 15 settembre 2016. “Quel giorno – scrive – la mia vita si è riannodata a un filo antico. Non era soltanto una scelta imprenditoriale: era il bisogno di ridare voce a una storia che non poteva finire”.
E ancora: “L’azienda era fallita da sei mesi, mia madre e mio padre si stavano reinventando a quasi 60 anni e io mi ero appena licenziata da Chanel dove lavoravo come commessa. Avevo bisogno di ritrovare la mia vena creativa”.
Quindi il racconto emotivo, palpitante, avvolgente: la telefonata misteriosa che annunciava l’asta del marchio Brandimarte, il pensiero che con quel simbolo se ne sarebbe andato, chissà dove e con chi, la storia del nonno contadino romagnolo, cresciuto in un orfanatrofio, sceso a Firenze per amore e diventato, per passione e necessità, il più bravo artigiano artista. Semplicemente straordinario nella lavorazione dell’argento.
Ma da lì nacque lo scatto, l’idea, la voglia di correre a riprendersi il marchio che rappresentava la famiglia, il simbolo e il lavoro di Brandimarte. Da lì testa e cuore che si fondono in una ragazza capace di dimostrare che i geni ereditari non sono definizione astratta. Lei contro tutti, lei pronta a fare di tutto per riportare in famiglia qualcosa più di distintivo di fabbrica. Lei che si fa paladina di tutti: del babbo, della mamma, delle sorelle e di nonna Germana per riappropriarsi di un bene che andava al di là di una sfida da imprenditore. Disse, soprattutto a se stessa: “Brandimarte è il nonno, Brandimarte siamo noi. Riprendiamoci il marchio”.
Tutto il resto, con i dettagli e il batticuore, è ben raccontato nelle pagine del libro. A me, che ho avuto la fortuna di conoscere Brandimarte alcuni decenni fa, restano da aggiungere due episodi. Il primo, nel 1989, quando venne a “La Nazione”, insieme a Ugo Poggi, per lanciare il “Torrino d’oro”, da lui cesellato, da consegnare durante la cena di San Frediano, in piazza di Cestello. Ugo, indicandomi, disse: “Lui è cresciuto nella Rondinella. Sa di cosa parliamo”. Brandimarte mi abbracciò: “Dai, scrivi un bel pezzo e cominciamo”.
Secondo episodio: il viaggio a Roma, un paio d’anni dopo, per consegnare il “Torrino d’oro” a Vasco Pratolini, in una zona che non era nè città, nè campagna, dove ci si poteva perdere. Guidava Orlando Chiaverini, fratello di Scalabrino, mitico calciante bianco. Chiedemmo a due vigili urbani in moto dov’era la strada della casa di Pratolini. Scattarono sull’attenti e ci scortarono: uno davanti, uno dietro. Brandimarte: “E’ normale, si viene da Firenze”. Arrivati, vide lo scrittore. Pensò alle “Ragazze di San Frediano”. Rimase affascinato, mi prese per un braccio: “Vedi, lui non morirà, si dissolverà. E lo spirito resterà sempre”.
Nemmeno lo spirito di Brandimarte si dissolverà: grazie a questa nipote, bella anche nella testa e nel cuore, che lo fa rivivere nel libro e soprattutto nel simbolo. Il “suo” marchio di fabbrica. Che lei ha saputo difendere e riprendere con l’impeto dei calcianti sul sabbione. Ereditato dal babbo.
