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Meloni chiude Atreju: “Il Campo largo? Lo abbiamo riunito, noi non la Schlein. Il suo è nannimorettismo, senza contenuti”

Giorgia Meloni (Foto Governo.it)

ROMA – La “sinistra” in tutte le salse, a partire da Elly Schlein, che li dovrebbe “federare” tutti e invece è “l’unica che non si è presentata”. Così Giorgia Meloni chiude Atreju parlando per un’ora al suo popolo. E’ l’Atreju “dei record”, il “più partecipato di sempre” alla faccia delle “macumbe” di una opposizione che “le ha provate tutte” ma alla fine “si porta sfiga da sola”.

Difende l’azione del suo governo, la “credibilità” riconquistata non tanto per i “mercati finanziari” ma per “i mercati rionali”, e adotta un tono nuovo, particolarmente sarcastico, nei confronti di quel “campo largo che abbiamo riunito noi” e non la segretaria dem che ha scelto di “scappare” perché “non ha contenuti”.

Sale sul palco, da tradizione, giusto dopo l’Angelus, elogiata poco prima dai suoi alleati. In prima fila ci sono tutti, dimostrazione plastica che il centrodestra era e resta unito, nonostante diversità di vedute, soprattutto sul dossier Ucraina. Ne parla poco, la presidente del Consiglio, limitandosi a confermare che l’Italia rimarrà a fianco all’Ucraina perché “nessuno ha nostalgia dell’Urss”, e pure – sempre sbeffeggiando il pacifismo di sinistra – che la pace “non si fa con le canzoni di John Lennon ma con la deterrenza”.

Ma parla poco di politica estera in generale, su cui pure tanto ha concentrato la sua attività nei primi tre anni di governo, salvo liquidare le “valutazioni molto allarmate” per il disimpegno americano annunciato da Donald Trump: “Buongiorno Europa, la sicurezza non è gratis”. Con gli Usa, ribadisce, bisogna “rafforzare il dialogo ma tra pari, non in condizioni di subalternità”.

Chiusa la parentesi – in maniche di camicia – sfodera tutto il repertorio identitario, il no al velo come strumento per frenare l’estremismo islamico, il ritorno delle “regole” perché bisogna farla finita con il “lassismo e la gabbia asfissiante del ’68”, i centri in Albania che “funzioneranno” nonostante “le sentenze ideologiche”, l’economia che corre e i posti di lavoro che aumentano (visto il “fallimento totale dello sciopero di venerdì se ne sono accorti anche gli iscritti della Cgil”).

Rimanendo di fatto concentrata sul percorso interno che nei suoi piani la porterà, scavallato il referendum sulla giustizia, a diventare il governo più longevo della storia repubblicana. Perché “il governo dura fino a fine legislatura”, torna ad assicurare invitando gli elettori a “fregarsene della Meloni” e a votare per il referendum “perché non ci possa essere una vergogna come quella di Garlasco”.

Matteo Salvini rilancia pure la responsabilità civile dei magistrati perché “anche i giudici devono pagare”. Tocca un tasto molto pop, la premier, perché una delle questioni dibattute nel centrodestra è come mandare un messaggio semplice all’elettorato di fronte a un quesito piuttosto tecnico, che le opposizioni cavalcano come un tentativo di assoggettare i giudici al potere politico. Di riforme parla solo alla fine, citando pure l’autonomia e il premierato in realtà fermo alla Camera da un anno e mezzo, e buona parte dei suoi sessanta minuti li dedica, invece, a mettere in luce le differenze con una sinistra “rosicona” perfino quando la cucina italiana viene riconosciuta patrimonio immateriale dell’Unesco, perché “loro” mangiano solo “dal kebabaro”.

Una sinistra che nella campagna per le regionali “si è giocata ogni carta possibile, perfino il riconoscimento della Palestina”, come ha fatto Matteo Ricci nelle Marche – o “l’abolizione del bollo auto”, proposta da Pasquale Tridico in Calabria. “Roba – affonda il colpo – che Cetto La Qualunque in confronto è Ottone di Bismarck”.

Ma in fondo, la sua sintesi, “si portano sfiga da soli, che manco quando te capita la carta della pagoda al Mercante in fiera”. Ai “miei Fratelli d’Italia” chiede in chiusura di “non dimenticare da dove siamo partiti” ma di continuare a essere quella “scintilla da portare di cuore in cuore, di città in città, fino a farla divampare”. Come la Fiamma, che resta saldamente nel simbolo.



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