Omelia di Natale 2025 di Gambelli da Sollicciano: “Non bisogna scoraggiarsi ma andare avanti con tenacia e spirito di collaborazione”

Firenzepost augura buon Natale 2025 a tutti i suoi lettori. E pubblica integralmente l’omelia dell’arcivescovo di Firenze, Gherardo Gambelli, pronunciata la mattina del 25 dicembre nel carcere di Sollicciano
All’inizio del secolo scorso, un poeta, riflettendo sul senso della festa del Natale diceva: «La gente
fa il presepe e non mi sente, cerca sempre di farlo più sfarzoso, però ha il cuore freddo e
indifferente, e non capisce che senza l’amore, è cianfrusaglia che non ha valore» (Trilussa, Er
presepio).
Cari fratelli e sorelle, un sentito ringraziamento alla Direttrice della casa circondariale di
Sollicciano, al Comandante, agli agenti, al cappellano, agli educatori, ai volontari e a tutti coloro
che ci hanno permesso di celebrare questa Messa oggi, nel giorno di Natale. La preghiera è proprio
ciò che ci consente di accogliere l’amore di Dio per poter vivere in modo autentico questa festa e
non ridurre il Natale a “cianfrusaglia senza valore”. Il vangelo che abbiamo ascoltato vuole aiutarci a capire che Gesù è il vero dono di cui abbiamo bisogno per essere felici.
Dice l’evangelista Giovanni: “Dio nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18). Noi crediamo che ogni volta che ci mettiamo con coraggio in ascolto del Vangelo possiamo conoscere Gesù e soprattutto vivere la meravigliosa esperienza di sentirci conosciuti e amati per primi da Lui. Vorrei soffermarmi su tre parole del testo che abbiamo ascoltato, due sostantivi e un pronome: luce, testimone, noi. La prima parola si riferisce a Gesù: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta”. L’evangelista parlando delle tenebre ci invita a credere che esse non hanno la forza di vincere la luce, ciò significa che il male non è mai più forte del bene.
Un detenuto di un altro istituto penale fuori Firenze mi ha scritto alcuni mesi fa, condividendo una preghiera da lui composta parafrasando un salmo della Bibbia: «Fino a quando, Signore, dovrò pagare i miei errori? Fino a quando, Signore, dovrò soffrire per aver fatto soffrire? Fino a quando, Signore, dovrò aspettare che tu entri profondamente nel mio cuore? Fino a quando, Signore, dovrò aspettare la luce che mi indichi la strada della salvezza? Fino a quando, Signore, dovrò aspettare il tuo perdono? Ti aspetterò con infinito amore perché in te io confido mio Signore. Amen». Come ci ha ricordato tante volte Papa Francesco: Dio non si stanca mai di perdonarci. Se ci chiede di perdonarci gli uni gli altri fino a settanta volte sette, ciò significa che Lui per primo ci perdona così, ci ama di un amore gratuito, infinito ed eterno. Per questo possiamo confidare in Lui.
La seconda parola “testimone” viene impiegata per parlare di Giovanni Battista: “Egli venne come
testimone, per dare testimonianza alla luce. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla
luce”. Giovanni Battista ha vissuto la tentazione di sostituirsi a Gesù e la fatica di ricredersi
riguardo a un certo suo modo di immaginare la rivelazione del Messia. Se avesse ceduto non
sarebbe più stato testimone. Papa Leone nella Messa per il Giubileo dei detenuti ha parlato di
questo coraggio necessario per non lasciarsi vincere dalla rassegnazione, dalla pigrizia,
dall’indifferenza, dall’orgoglio o dall’egoismo: «Certo, il carcere è un ambiente difficile e anche i migliori propositi vi possono incontrare tanti ostacoli. Proprio per questo, però, non bisogna stancarsi, scoraggiarsi o tirarsi indietro, ma andare avanti con tenacia, coraggio e spirito di collaborazione. Sono molti, infatti, a non comprendere ancora che da ogni caduta ci si deve poter rialzare, che nessun essere umano coincide con ciò che ha fatto e che la giustizia è sempre un processo di riparazione e di riconciliazione. Quando però si custodiscono, pur in condizioni difficili, la bellezza dei sentimenti, la sensibilità, l’attenzione ai bisogni degli altri, il rispetto, la capacità di misericordia e di perdono, allora dal
terreno duro della sofferenza e del peccato sbocciano fiori meravigliosi e anche tra le mura delle
prigioni maturano gesti, progetti e incontri unici nella loro umanità. Si tratta di un lavoro sui propri sentimenti e pensieri necessario alle persone private della libertà, ma prima ancora a chi ha il grande
onere di rappresentare presso di loro e per loro la giustizia. Il Giubileo è una chiamata alla
conversione e proprio così è motivo di speranza e di gioia».
L’ultima parola è il pronome “noi” che ricorre varie volte nel testo e si riferisce alla comunità di
coloro che hanno accolto la manifestazione di Gesù nella nostra carne: “Dalla sua pienezza noi tutti
abbiamo ricevuto: grazia su grazia”. Un proverbio africano dice: “Se vuoi andare veloce cammina
da solo, ma se vuoi andare lontano cammina insieme agli altri”. Accogliendo Gesù nella nostra vita,
noi crediamo che riceviamo da lui il potere di diventare figli di Dio. Se siamo figli di un unico
Padre, possiamo riconoscerci tutti fratelli e sorelle fra di noi. Questo luogo difficile del carcere può cambiare se davvero ognuno cresce nella consapevolezza della dignità di ogni persona creata a immagine di Dio, per la quale Gesù è nato, morto e risorto. La vera libertà consiste nel coraggio di mettersi al servizio gli uni degli altri nell’amore. Quando impariamo a rispettarci e ad amarci come Gesù ci rispetta e ci ama, possiamo diventare davvero capaci di compiere grandi cose ed essere per il mondo segni della speranza che non delude, di cui il mondo ha particolarmente bisogno oggi.
Concludo con un piccolo racconto in forma di parabola.
Un cacciatore, vedendo un gruppo di quaglie razzolare insieme, tese una rete per catturarle tutte. Le
quaglie, spaventate, si gettarono nella rete, ma invece di disperdersi, si coordinarono: iniziarono a
volare tutte contemporaneamente verso l’alto, sollevando la rete insieme e volando via, lasciando il
cacciatore a bocca asciutta. La sera rientrando ai loro nidi, le quaglie si congratularono a vicenda,
dicendosi che in avvenire avrebbero potuto agire nello stesso modo per sfuggire al pericolo. Si
sentivano immortali. Avvenne però un giorno che, dopo essere cadute nella rete, una delle quaglie
disse alle altre: “La rete in cui siamo cadute stavolta è più pesante delle altre. Dobbiamo essere più
coordinate nello spiccare il volo insieme. Darò io il via, al mio tre ci alzeremo tutte insieme”. Ma
un’altra replicò: “No, sarò io a dare il via”. Mentre discutevano fra loro senza riuscire a trovare un
accordo, il cacciatore si avvicinò rapidamente e le catturò senza fare troppa fatica.
Aiutaci Signore ad accogliere la tua luce che vince le nostre tenebre, ad essere testimoni trasparenti
del tuo amore, a metterci a servizio di un noi dalle porte aperte, felice di collaborare con tutti quelli
che si impegnano per un mondo di pace, giusto e fraterno.
