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Diffamazione: niente carcere ma rischi seri per i giornalisti (anche sul web)

Chi ha detto che la politica non è al passo con i tempi? In alcuni casi il legislatore guarda non solo al presente, ma anche alla sua rapida evoluzione. A cominciare dalle sanzioni da infliggere a chi fa informazione. Il Senato della Repubblica, dopo l’aspro scontro sul Jobs Act, ha ritrovato infatti toni più morbidi e tanta voglia, come si usa dire oggi, di condivisione attorno ad un tema delicato: quello del reato di diffamazione compiuto attraverso i media, seguendo una linea che potrebbe paradossalmente mettere a serio rischio il sistema più innovativo, veloce e interattivo fino ad ora conosciuto, cioè il web. O meglio i contenuti che ogni giorno vengono proposti su pagine elettroniche come quella che state adesso leggendo.

Il testo del provvedimento, già votato alla Camera e passato in commissione Giustizia al Senato, è giunto in aula. E’ scomparso il carcere, ma è stato sostituito da multe fino a 10.000 € , fino a 50.000 se l`offesa consiste nell`attribuzione di un fatto falso, la cui diffusione sia avvenuta con la consapevolezza della sua falsità.

Il Senato sta infatti cominciando ad esaminare un disegno di legge che, con il corollario dei sui suoi bravi emendamenti, dovrebbe superare una normativa che prevede condanne fino a tre anni di reclusione per la diffamazione a mezzo stampa (se poi la reputazione offesa è quella di un corpo politico o giudiziario le pene sono aumentate) e salate sanzioni pecuniarie. Stessa sorte, stabilisce il codice (gli articoli sono il 595 e seguenti del codice penale) tocca anche al direttore responsabile e all’editore o allo stampatore, per i quali si applicano eventualmente altri articoli 57 e seguenti relativi all’omesso controllo dei contenuti. Il testo in discussione, in verità, si propone di superare l’aspetto più sconcio di quanto previsto e cioè il rischio della galera per i giornalisti. Ma la coperta cucita dal legislatore è corta: così se copre le spalle della vergogna del rischio-cella per chi fa informazione, scopre i piedi che rischiano di restare gelati per almeno due motivi. Il primo è l’introduzione di sanzioni pecuniarie così alte da scoraggiare chiunque ad intraprendere la strada di un’informazione che voglia entrare nel vivo nelle questioni, indagare, approfondire e, magari, pestare anche involontariamente qualche piede.

L’altro, ancora più grave, è l’estensione di fatto del principio di diffamazione a mezzo stampa anche ai nuovi media, segnatamente al web. Un emendamento prevede infatti che vengano applicate le sanzioni non solo al direttore, ma anche a chi abbia il sito attraverso il quale il reato di diffamazione viene commesso e addirittura all’autore di un blog, da identificare attraverso l’indirizzo Ip, se non viene rimosso entro 24 ore il testo “incriminato”. Fin qui la cronaca. Ora alcune riflessioni, a titolo personale ma che l’esperienza mi dice non essere molto lontane dalla realtà prossima ventura. L’impianto della proposta e degli emendamenti, infatti, non prende in alcuna considerazione il fatto che la maggior parte dei contenuti web risentono di quella fondamentale caratteristica che è l’interattività. Ogni pezzo su un sito o su un blog può essere commentato dai suoi lettori e di questi commenti potrebbe essere chiamato a rispondere, se la nuova norma sarà questa, chi ha scritto o pubblicato il testo di partenza. Pensate: è un po’, lasciando da parte le tecnicalità della proposta di legge e volendo estremizzare ma non troppo, come se due signori al bar leggessero un “vecchio” giornale cartaceo che propone la notizia di un aumento delle tasse e commentassero “governo ladro!” , trascinando con questo loro commento nella loro responsabilità anche il redattore, il direttore e l’editore che hanno scritto e pubblicato la notizia sull’aumento delle tasse.

Qui, dunque non si tratta solo di richiamare alla propria responsabilità coloro i quali hanno il compito professionale di informare attraverso i mezzi che si reputano più idonei, e di sanzionarli nei casi in cui il diritto all’informazione sia esercitato in modo tale da danneggiare altri diritti, ma di una norma che potrebbe avere effetti devastanti sulla stessa libertà di opinione. Il tutto, ovviamente, senza una parola, o un atto, che si occupi di evitare ad esempio le cosiddette “querele temerarie”, quelle che pur con scarse speranze di trovare riscontro in un’aula di giustizia vengono presentate al solo scopo di intimidire i giornalisti e a tentare di “correggere” i loro articoli, alimentando in questo modo il restringimento di spazi di libertà, sia di chi scrive che di chi legge. Che spesso, poi, nel caso del web, sono gli stessi. Cioè tutti.


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Stefano Fabbri

Giornalista
Componente del Direttivo dell'Associazione Stampa Toscana
Consigliere nazionale dell'Unione nazionale cronisti italiani

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