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Mediterraneo: perché la tomba dei 700 migranti resterà negli abissi

Un'imbarcazione carica di migranti
Un’imbarcazione carica di migranti

MEDITERRANEO CENTRALE – È su un fondale a una profondità di circa 400 metri il peschereccio affondato la notte maledetta di domenica 19 aprile tra la Libia e Lampedusa. Con il suo carico di centinaia di persone rinchiuse nella stiva e impossibilitate solo a muoversi. Settecento, novecento, un numero che nessuno saprà mai. È la loro tomba, laggiù nel buio degli abissi, e così resterà per sempre: dimenticata da tutti, presto anche dagli squali.

Sull’onda dell’emozione delle prime ore c’è chi ha parlato di «recupero» del relitto per dare «degna sepoltura alle vittime». Operazione nobile ma molto improbabile. I motivi non mancano, alcuni forse cinici ma realisti, in uno scenario ancora avvolto da molti punti oscuri.

BUIO – Prima di tutto la mancanza (almeno ufficialmente) di dati sulle dimensioni – e quindi sull’effettiva capacità – del natante. Nessuno, nella pur buia notte tra sabato 18 e domenica 19 aprile, dal mercantile portoghese King Jacob che era stato fatto avvicinare (era al suo quarto intervento umanitario su quella rotta), ha scattato una foto, un’immagine qualunque del peschereccio arrivato sotto bordo? Tanto più che proprio adesso sembra venir fuori l’indicazione che ci sarebbe stata una collisione, mentre nei primi momenti tutte le fonti avevano riferito che l’imbarcazione si era «ribaltata» quando la maggior parte dei presenti a coperta si era portata sul un lato, nel tentativo di salire a bordo della nave portoghese. Sta di fatto che il peschereccio della disperazione – partito dall’Egitto e diretto a Lampedusa, come fosse su una rotta commerciale e poco visibile ai radar se non a 10-15 miglia di distanza – si è inabissato in pochi momenti, con il suo enorme (riferiscono alcuni dei 24 superstiti) carico umano.

TECNICHE – Perché ben difficilmente il natante verrà recuperato? Due i problemi principali: le tecniche e i costi. L’unica nave della Marina Militare Italiana potenzialmente adatta per un’operazione del genere è Nave Anteo. Nata come unità di appoggio per mettere in salvo equipaggi di sommergibili o navi affondate, dispone oggi di moderne attrezzature e di personale di altissima specializzazione: tra questi i palombari del Gos (Gruppo operativo subacqueo) delle Forze Speciali del Comsubin e un «minisommergibile» che consente ai subacquei di operare fino a 300 metri di profondità (fonte Wikipedia). Ma il peschereccio – a quanto sembra – è più in basso. Il lavoro dei palombari è poi particolarissimo: solo la decompressione, ad esempio, può durare anche alcune settimane all’interno di un «minialloggio» subacqueo.

COSTI – Sul piano tecnico comunque, a livello mondiale, non ci sono limiti di profondità per il recupero di relitti. Esistono attrezzature teleguidate capaci si scendere anche a 2000 metri di profondità. L’Italia (forse sarebbe meglio dire l’Europa, se vi avesse interesse) dovrebbe necessariamente «appaltare» l’operazione a imprese private specializzate. I costi? Come detto può sembrare cinico, ma si parla di almeno 200-300 mila euro al giorno per nave impiegata. Studi e tecnologia a parte, naturalmente. Qualche milione di euro, che, realisticamente, potrebbero essere spesi per una migliore accoglienza a chi è, per sua fortuna, riuscito a sopravvivere durante questa stagione di sbarchi che sembra non avere fine.

Le cifre ancora


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Sandro Addario

Giornalista

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