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Contratto del pubblico impiego: ancora i conti non tornano, si cerca di rimediare in tempi brevi

Passato il referendum problemi di risorse

Dopo l’entusiasmo della prima ora vengono progressivamente alla luce le tante difficoltà che ancora sussistono per la realizzazione pratica dell’accordo sottoscritto dai sindacati confederali e dal governo in tema di rinnovo del contratto dei pubblici dipendenti. Segno che si sono forzati i tempi in vista del referendum.

Prima di tutto occorre spiegare ai profani della materia che l’accordo trovato non significa contratto rinnovato, ma è solo una base di partenza. Adesso toccherà all’ARAN, l’Agenzia per la negoziazione incaricata dalla Madia, di trattare con i sindacati e mettere davvero le firme sul rinnovo del contratto. L’accordo trovato però lascia qualche dubbio su tutto l’apparato, ad iniziare proprio dalle 85 euro di aumenti medi promessi.

Nella Legge di Bilancio, sono previste spese per oltre 1,5 miliardi per il lavoro pubblico, ma solo la metà o giù di lì andranno per il rinnovo. L’accordo non fuga i dubbi sullo start del rinnovo, se sarà dal luglio 2015 (la sentenza), da gennaio 2016 o più verosimilmente da gennaio 2017. Inoltre, con i 300 milioni stanziati nella Stabilità 2016 e quelli nuovi, 85 euro pro capite sembrano cifre eccessive. I sindacati infatti hanno chiesto che le 85 euro fossero considerati cifra minima di aumenti, mentre la definizione media, rende l’idea di un aumento che sarà diverso a seconda dei lavoratori.

Facendo i conti della serva per molti lavoratori la cifra di 85 euro netti probabilmente rimarrà soltanto un sogno, anzi, c’è il concreto rischio di perdere parte della retribuzione, quella del bonus Renzi da 80 euro, tanto per intenderci. Questo bonus fiscale introdotto dal Renzi, è appannaggio dei lavoratori fino a 26mila euro di stipendio annuo. Oltre quella cifra, il bonus non viene erogato e quindi è evidente che concedere l’aumento a questi soggetti, facendogli sforare la soglia utile al bonus sarebbe un controsenso. In pratica, si corre il rischio che concedendo aumenti di 85 euro, si perdano 80 euro di bonus, annullando il vantaggio del rinnovo. Un rischio assurdo che sindacati e Governo hanno promesso di risolvere in sede di firma del contratto.

Per il Governo eliminare questo pericolo costerebbe 150 milioni, mentre per i sindacati la cifra sale a 400 milioni. Si ridurrebbe perciò ancora di più lo stanziamento per il rinnovo, di poco superiore al miliardo. Il problema non si riduce solo a lavoratori vicini alla soglia dei 26.000 euro. Il Messaggero del 3 dicembre, nel calcolare gli ipotetici vantaggi derivanti dal nuovo accordo, ha fatto l’esempio di un lavoratore con stipendio da 24.000 euro netti, cioè la stragrande maggioranza dei dipendenti a prescindere dai comparti. Per via dell’aumento di 85 euro, passerà a 25.105. Il Bonus spettante si ridurrebbe a 36 euro e nel gioco del credito di imposta e delle detrazioni, il suo stipendio salirebbe di soli 15 euro al mese, una miseria rispetto agli 85 promessi.

I rappresentanti di Cgil, Cil e Uil e ovviamente la ministra Madia sono ottimisti, credono che nel prossimo futuro si troveranno modalità e risorse sufficienti per non penalizare un nutrito gruppo di pubblici dipendenti (circa 200.000 secondo la ministra).

I tempi delle promesse elettorali però sono scaduti e dal 5 dicembre la Commissione Ue chiederà conto a Renzi delle tante spese di questo tipo che non sembrano avere copertura sufficiente nella legge di bilancio. Ma allora la consultazione referendaria sarà già alle spalle e, come dice un proverbio che sembra caro al rottamatore, passata la Festa gabbato lo Santo. E i lavoratori pubblici potrebbero andare incontro a un’altra, cocente delusione.

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