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Opera di Firenze: arriva il «Don Carlo» di Verdi diretto da Zubin Mehta

Prove Don Carlo
Un momento delle prove di «Don Carlo» all’Opera di Firenze

FIRENZE – All’Opera di Firenze si sta provando il «Don Carlo» di Giuseppe Verdi, nel quale Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino saranno diretti da Zubin Mehta. Nel ruolo eponimo il tenore Roberto Aronica (sostituito da Sergio Escobar il 14/5); Elisabetta è Julianna Di Giacomo, Filippo II è Dmitry Beloselskiy, Rodrigo Massimo Cavalletti, la Eboli Ekaterina Gubanova.

Sarà la versione in quattro atti, anche se il Maestro preferirebbe quella in cinque (con cui ha una lunga consuetudine, mentre è la prima volta che dirige quella in quattro), per la quale, del resto, l’allestimento era nato. Ma si tratta di una messa in scena molto elastica, cui hanno collaborato l’ABAO-OLBE di Bilbao, della Fundación Ópera de Oviedo, del Teatro de la Maestranza de Sevilla e del Festival Ópera de Tenerife: dovendo girare per teatri diversissimi (e ha già fatto il giro di Spagna), è fatto per allargarsi e restringersi a seconda del bisogno, e si può adattare anche a un restringimento dell’azione. Cosa positiva per le voci, a detta del Maestro Mehta (parere autorevole) è il fatto che la scena è come racchiusa in una scatola, il che impedisce la dispersione del suono sul fondo.

La regia è affidata a Giancarlo Del Monaco, figlio del celeberrimo tenore Mario, che «Don Carlo» non lo voleva interpretare: diceva, e non gli si può dar torto, che canta come un dannato dall’inizio alla fine e poi gli applausi se li prendono tutti gli altri, che, a differenza di lui, cantano meno ma hanno arie mirabolanti. Tanta fatica e poca resa: che ci cantasse Corelli…

Stavolta, niente trasposizioni spazio-temporali: Del Monaco, convinto che le opere come questa (che mette in scena personaggi realissimi, a parte il Marchese di Posa inventato da Schiller, fonte diretta dei librettisti) siano mal sradicabili dalla loro epoca, punta alla minuziosa ricostruzione, con costumi “cinematografici” che riflettono la moda che il predecessore di Filippo II, Carlo V, aveva importato dalle Fiandre: tutti in elegantissimo nero, che d’altronde era una novità anche tecnologica (fino al XV secolo non si sapevano tingere i panni di un bel nero brillante che reggesse e la produzione delle stoffe di questo colore era costosissima). Se ci saranno delle variazioni rispetto al libretto, saranno in direzione iperrealista: il finale vagamente esoterico dell’opera, con Carlo V – da tutti creduto morto – che sbuca a prelevare il nipote portandolo con sé, viene sostituito da un finale esplicito ispirato alla «Leyenda negra» fatta diffondere da Elisabetta I d’Inghilterra, secondo la quale Filippo in persona avrebbe ucciso il figlio (che nella realtà aveva semplicemente fatto rinchiudere dopo che, al culmine di varie manifestazioni di squilibrio mentale, aveva congiurato contro il padre, e morì effettivamente durante la reclusione; naturalmente, nella realtà, Elisabetta di Valois non è mai stata innamorata di lui e si trovava anzi, a quanto pare, piuttosto bene con l’educato Filippo, che aveva meno di vent’anni più del figlio e di lei: anche la fola dell’amore contrastato, che tanto piacque ai romantici ottocenteschi, ha origine dalla propaganda avversa al sovrano spagnolo). Sempre per realismo si vedrà la principezza Eboli come appare in un famoso ritratto di Sanchez Coello: con una benda nera sull’occhio destro (provetta spadaccina, oltre che donna bellissima, la passione per il fioretto le costò effettivamente un occhio: lo perse duellando con un paggio).

Opera fra le più tormentate di Verdi, ebbe la bellezza di sette versioni e solo da pochissimo è stato aperto un baule contenente 2700 fogli autografi fra cui vari abbozzi del «Don Carlo»: ne parlerà Alessandra Carlotta Pellegrini, Direttore Scientifico dell’Istituto Nazionale di Studi Verdiani in apertura di un interessante convegno che precederà immediatamente la prima dell’opera, nel foyer di galleria (al secondo piano del teatro), il 4 e 5 maggio.

Quanto alla versione prescelta per la messinscena fiorentina (prima esecuzione: 10 gennaio 1884, Milano), lo stesso Verdi ne scrisse: «Il Don Carlos è ora ridotto in quattro atti, sarà più comodo, e credo anche migliore, artisticamente parlando. Più concisione e più nerbo».

L’azione si svolge in Spagna e inizia direttamente nel chiosto del convento di San Giusto, dove i frati cantano «Carlo, il sommo imperatore, /non è più che muta polve» mentre Don Carlo lamenta la perdita della fidanzata Elisabetta di Valois, sposata dal padre Filippo II (il corteo della sposa partì da Blois nel novembre 1559). Qui arriva il suo amico fraterno Rodrigo, marchese di Posa, che per staccarsi dall’insano amore gli consiglia la pertenza per le Fiandre, dove la popolazione è oppressa dal duro regime imposto da Filippo. All’uopo fa consegnare a Elisabetta, riunita in un giardino con le dame (fra cui la principessa Eboli, che canta la famosissima “canzone saracina”) un messaggio di Carlo, che la implora Elisabetta di consentire a un incontro. Dovrebbe solo chiederle di intercedere con Filippo perché lo lasci partire, ma Carlo non si domina e le dichiara il suo amore, poi fugge disperato. Arriva Filippo, che si infuria quando vede Elisabetta sola e rispedisce in Francia la dama che avrebbe dovuto starle accanto. Filippo resta solo con Rodrigo, di cui apprezza il carattere e l’audacia, e questi lo implora di concedere la libertà alle Fiandre; Filippo non lo ascolta, ma lo mette in guardia dal Grande Inquisitore, per il quale le idee di Rodrigo costituiscono una grave colpa. Poi Filippo cerca di farsi Rodrigo alleato, confidandogli il sospetto che Carlo stia cercando di strappargli Elisabetta e chiedendogli di sorvegliarli. La scena si sposta poi a Madrid, dove si sta svolgendo la festa della regina, ma Elisabetta non se la sente di partecipare e preferisce ritirarsi in preghiera, come ha fatto anche Filippo, che il giorno seguente sarà incoronato re. Per fare in modo che la sua assenza non venga notata, Elisabetta scambia il proprio mantello e la maschera con quelli di Eboli. Il dettaglio, presente nel Grand Opéra in cinque atti, manca nella versione in quattro atti, ma Giancarlo Del Monaco lo farà rappresentare in scena, dato che è indispensabile per capire perché, poco dopo, Don Carlo scambi la Eboli per la regina nel giardino. Equivoco fatale, perché le parla d’amore e la Eboli, segretamente innamorata di lui, quando, al di lui cambiamento repentino non appena gli parla, capisce che lui la credeva la regina, diventa una belva assetata di vendetta. Rodrigo, conscio dei pericoli cui è esposto l’amico, lo convince a consegnargli tutti i documenti compromettenti riguardo alle Fiandre. Il terzo atto, che viene dopo la scena dell’auto da fé (quella per la quale, nella messinscena fiorentina, è stato preparato il crocifisso copia di quello di Cellini regalato dai Medici a Carlo V), si apre con Filippo che medita oppresso dalla certezza di non essere amato da Elisabetta (Ella giammai m’amò) ed dal sospetto di essere tradito dalla moglie e dal figlio; al Grande Inquisitore chiede se un re cristiano può condannare a morte il figlio ed avere l’assoluzione della Chiesa. L’Inquisitore risponde che, per il bene dello Stato, tutto è lecito; anche Dio sacrificò suo figlio per riscattarci; poi ne approfitta per chiedere la testa di Rodrigo. Giunge la regina invocando giustizia contro chi le ha sottratto lo scrigno in cui custodisce i gioielli e le cose più care; ce l’ha il re, che lo fa aprire trovandovi il ritratto di Carlo; accusata d’adulterio, Elisabetta, che gli ha rammentato come fosse stata promessa a Carlo, sviene. Rodrigo biasima il comportamento del re, che si convince dell’onestà della moglie. Eboli, rimasta sola con la regina, le confessa di avere sottratto lo scrigno, folle di gelosia, e le rivela oltretutto di essere stata l’amante del re. Elisabetta le impone di scegliere fra l’esilio e il convento. Posa viene ad annunciare a Carlo la sua liberazione: per salvarlo, ha fatto trovare presso di sé le carte compromettenti, affidategli dall’amico, che provano la sua partecipazione alla rivoluzione nelle Fiandre. Poco dopo viene ucciso. Nell’ultima scena Elisabetta prega presso la tomba di Carlo V; Carlo la raggiunge e giura di lasciare la Spagna e di dedicare la sua vita alla causa delle Fiandre, dimenticando l’impossibile amore per lei. Mentre si scambiano l’ultimo addio vagheggiando di ritrovarsi in un “mondo migliore”, li sorprende il re, accompagnato dall’Inquisitore, ed ordina alle guardie di arrestare l’Infante. Nel libretto un frate, in cui tutti riconoscono Carlo V, porterebbe via Carlo, ma nell’allestimento fiorentino verrà ucciso.

Opera di Firenze (Piazzale Vittorio Gui)

Venerdì 5 maggio, ore 20
Lunedì 8 maggio, ore 20
Giovedì 11 maggio, ore 20
Domenica 14 maggio, ore 15.30

Don Carlo. Versione in quattro atti, in italiano, con sovratitoli in italiano e inglese. Musica di Giuseppe Verdi. Libretto di Joseph Méry e Camille du Locle. Allestimento dell’ABAO-OLBE di Bilbao, della Fundación Ópera de Oviedo, del Teatro de la Maestranza de Sevilla e del Festival Ópera de Tenerife.

Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino diretti da Zubin Mehta. Maestro del Coro Lorenzo Fratini. Regia Giancarlo Del Monaco, regista associata Sarah Schinasi, scene Carlo Centolavigna, costumi Jesús Ruiz, luci Wolfgang von Zoubek.

Don Carlo: Roberto Aronica / Sergio Escobar (14/5), Elisabetta: Julianna Di Giacomo, Filippo II: Dmitry Beloselskiy, Rodrigo: Massimo Cavalletti, Eboli: Ekaterina Gubanova, Il grande Inquisitore: Eric Halfvarson, Un frate: Oleg Tsybulko, Una voce dal cielo: Laura Giordano, Tebaldo: Simona Di Capua; Il Conte di Lerma: Enrico Cossutta; Un araldo reale: Saverio Fiore; Deputati fiamminghi: Tommaso Barea; Benjamin Cho: Qianming Dou: Min Kim; Chanyoung Lee: Dario Shikhmir.

Biglietti da 20 a 150 euro, in vendita anche online

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