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Dipendenti statali, collocati in maggioranza nelle amministrazioni centrali, invecchiati e calati di numero

Francesco Cerisano su Italia Oggi riassume efficacemente la situazione dell’impiego statale, sulla base del quadro tracciato dalla relazione annuale della Corte dei Conti.

Lavorano per la maggior parte nelle amministrazioni centrali (58,8%), costano 166 miliardi l’anno, e sono 3,2 milioni gli statali in Italia, 91 mila in meno rispetto a dieci anni fa quando sono iniziati i blocchi al turnover che hanno progressivamente aumentato l’età media dei dipendenti pubblici, ormai superiore a 50 anni (nel 2001 era di 43,5 anni) con «effetti indiretti sulla qualità delle risorse umane».

A ridursi sono soprattutto i lavoratori delle autonomie locali (-7,1%) mentre quelli delle amministrazioni centrali sono lievemente cresciuti (+0,7%). Con la conseguenza che se nel 2010 gli statali rappresentavano il 15,6% del totale dei dipendenti, nel 2017 questa quota è scesa al 14,4%.

Per questo è auspicabile che i concorsi pubblici ripartano presto in modo realizzare, assieme a una maggiore valorizzazione e formazione delle competenze professionali interne, un cambio di passo virtuoso verso una pubblica amministrazione moderna e efficiente.

È quanto emerge dalla «Relazione sul costo del lavoro pubblico 2020» approvata dalle Sezioni riunite in sede di controllo della Corte dei conti. La Corte certifica come il costo del lavoro dipendente si sia attestato su un valore complessivo pari a 165,9 miliardi. Cifra che include anche i costi per il personale con lavoro flessibile (4,2 miliardi). Escludendo gli enti di nuova rilevazione, il costo del personale è sceso a 161,9 miliardi, in aumento del 3,7 per cento rispetto al 2017, in linea con l’incremento a regime previsto per la contrattazione collettiva nazionale per il triennio 20162018 (3,48%).

Pur a seguito di tale aumento, l’aggregato di spesa continua a mantenersi su un livello inferiore a quello del 2010 (4,7 miliardi ), con una contrazione del 2,8 per cento, imputabile al blocco introdotto dal dl n. 78/2010, dichiarato incostituzionale dalla Consulta nel 2015. Tuttavia, osserva la Corte, il rallentamento della spesa complessiva per il personale pubblico ha un rovescio della medaglia rappresentato dal progressivo innalzamento dell’età media che «incide sul piano delle motivazioni». «La prolungata assenza di turnover», scrivono i giudici contabili, «ha ulteriormente accentuato il gap conoscitivo e professionale tra le competenze teoriche, acquisite nell’iter formativo dalle nuove generazioni, cui per troppo tempo è stato precluso l’accesso al pubblico impiego, e quelle più statiche possedute dal personale in servizio, che continuano a caratterizzare, oltreché condizionare, la gran parte delle attività poste in essere dalle Pubbliche amministrazioni».

Di qui la necessità di portare a conclusione le procedure concorsuali per il ricambio del personale cessato in servizio in modo da colmare le lacune create negli organici anche da provvedimenti che hanno allentato i vincoli temporali per il collocamento a riposo (Quota 100). «I prossimi programmi di reclutamento, uniti a politiche formative estremamente mirate, dovranno rappresentare l’appuntamento cui le pubbliche amministrazioni non potranno assolutamente mancare per accrescere e consolidare quelle competenze tecniche, specialistiche e professionali, soprattutto nel campo digitale, imprescindibili per il supporto strategico e decisionale degli attuali sistemi di governane», auspicano le sezioni riunite. E i concorsi dovranno privilegiare il più possibile la preparazione pratica rispetto a quella teorica. La Corte certifica un altro dato ormai acquisito, ossia il fatto che siano state in particolar modo le amministrazioni locali a pagare il conto più salato delle politiche restrittive nella gestione del personale pubblico avviate nel 2010. Una stretta che, secondo le sezioni riunite delta magistratura contabile, «non ha inciso in modo uniforme sui diversi livelli territoriali di governo».

In particolare, le variazioni annue del numero dei dipendenti delle amministrazioni locali sono state costantemente negative sino al 2019, mentre per le amministrazioni centrali, già a partire dal 2014, si registrano andamenti positivi. Con la conseguenza che ora sono le amministrazioni centrali ad assorbire il maggior numero di statali con il 58,8% di dipendenti pubblici. Il posto pubblico si conferma, infine, particolarmente appetito dal genere femminile, visto che il 57% degli statali è costituito da donne. Un dato ovviamente condizionato dalla prevalenza femminile nel settore scolastico (dove le donne sono circa il 77% ), ma non solo, visto che anche nel Servizio sanitario nazionale e nella carriera penitenziaria il gentil sesso è maggioritario (rispettivamente pesa per il 67 e 69%).

Più ridotta l’incidenza percentuale delle donne tra i professori e ricercatori (37%), nella carriera diplomatica (22 %), nel comparto sicurezza-difesa (9,3% nei Corpi di polizia, 6% nelle Forze armate e 5,2%, nei Vigili del fuoco). Il lavoro flessibile si conferma molto circoscritto nel pubblico impiego e non potrebbe essere altrimenti visto che da sempre il posto fisso è associato al lavoro statale. Nel 2018 erano solo 118 mila le unità di personale a termine, la maggior parte (82%) con contratti nel comparto della sanità e delle funzioni locali. Infine un accenno alla prossima tornata contrattuale quella per il triennio 20192021.

La Corte conti si augura che la prossima contrattazione collettiva mantenga salda la ripartizione dei compiti rispettivamente affidati alla legge ed al contratto, così come ridefinita dal recente intervento riformatore introdotto con il digs n. 75/2017 e da cui hanno preso le mosse i contratti nazionali stipulati per il triennio 2016-2018. «La sovrapposizione di disposizioni contrattuali con disposizioni di legge ha rappresentato in passato, e rischia di essere in futuro, una delle cause delle incertezze e della farraginosità nei processi di gestione delle risorse umane all’interno delle pubbliche amministrazioni. Analoga attenzione deve essere posta nell’analisi della contrattazione collettiva integrativa, dove è ancora più importante evitare l’estensione degli spazi negoziali al di là del consentito».

Un quadro non certo positivo che rischia di non essere migliorato in tempi brevi da questo governo.

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