Magistratura, Viola: «Palamara? Le toghe non litighino e tornino umili»

FIRENZE – Marcello Viola, Procuratore generale di Firenze, che ha vinto davanti al Tar del Lazio, facendo annullato la nomina di Michele Prestipino a procuratore di Roma, in un’intervista a La Nazione, invita la magistratura ad uscire dalla vicenda Palamara, a smettere di litigare, a tornare umile. A immedesimarsi nel mulo, animale che fatica ed è ostinato. I giudici devono essere ostinati solo nella ricerca della verità, obiettivo alla base di ogni processo.
PALAMARA – «Preferisco non parlare di Palamara, sono tuttora troppo coinvolto», dice rispondendo alla domanda sulla sua nomina alla procura di Roma bloccata dopo i colloqui intercettati fra l’ex capo dell’Anm Luca Palamara, i deputati Luca Lotti e Cosimo Ferri e altri componenti del Csm. Un mese, come detto, fa Viola ha vinto il ricorso al Tar che rimette in gioco la carica di procuratore di Roma. Lui commenta: «La magistratura non è mai stata in crisi come adesso sta attraversando uno dei momenti più bui della sua storia. La sensazione che resta nei cittadini, è quella di una categoria travolta dai meccanismi per la spartizione del potere. Perciò dobbiamo cambiare le cose. Una volta, io ero giovane, un esponente di un partito d’opposizione in Sicilia mi disse, il giorno dell’approvazione del bilancio regionale: ti pare normale? Mi hanno appena chiamato per chiedermi cosa mi serve, così ci mettiamo d’accordo ed evitiamo problemi dopo. Siamo al punto: se metti d’accordo tutti nella spartizione del potere, dei soldi così come delle poltrone, non scontenti nessuno e l’affare è fatto».
LIVATINO – E ancora: «Spesso passa il messaggio di una magistratura che non vuole le riforme. Rosario Livatino, un altro grande magistrato morto ammazzato giovanissimo, diceva proprio questo: il ruolo del giudice non può sfuggire al cammino della storia, tanto egli che il servizio da lui reso devono essere partecipi di un processo di adeguamento. La magistratura ha mostrato di avere gli anticorpi, di essere in grado di produrli, e dobbiamo dimostrarlo a maggior ragione in questo grandissimo momento di crisi». La mafia? «E’ il male assoluto, ma se fai il magistrato non puoi sottrarti al dovere di capirlo. Quando ti trovi davanti un collaboratore di giustizia, come tante volte è successo a me, che ti racconta di aver commesso troppi omicidi per ricordarne uno in particolare, ecco, quello è l’abisso, e come si dice: se guardi in fondo all’abisso poi rischi di caderci dentro. Però devi farlo, devi guardare. La Corte costituzionale scrive che l’unico vero scopo del processo penale è la ricerca della verità. E la ricerca della verità passa anche attraverso il confronto con il male. Solo una cosa non devi fare: non ti devi mai spersonalizzare, non devi mai perdere il contatto con te stesso, altrimenti finisci col perdere te stesso».
POOL ANTIMAFIA – Perchè decise di fare il magistrato? Viola ha così risposto all’intervistatore: «Iniziai quando nacque il pool antimafia dell’Ufficio istruzione. Noi giovani magistrati respiravamo l’entusiasmo di persone come Giovanni Falcone, Rocco Chinnici, Paolo Borsellino. Di chi aveva capito che per la prima volta si poteva fare qualcosa contro Cosa Nostra. Falcone diceva: si può sempre fare qualcosa. Questa frase un magistrato dovrebbe averla scritta sulla sua sedia. Quando morirono Falcone e Borsellino ero travolto. Tutti noi eravamo travolti dal dolore, dallo sconforto. Mi trovavo a casa di Borsellino quando Nino Caponnetto se ne uscì con quella frase famosa: è finito tutto. Ma poi ricordo anche la reazione della gente: una processione ordinatissima, centinaia di migliaia di persone circondarono il palazzo di giustizia, riempirono Palermo di lenzuoli bianchi. Lì la mafia iniziò a perdere».
MULO – Il più grande male della giustizia? Marcello Viola non ha dubbi: «La lentezza. Un processo lento è un non processo. Certo, la giustizia deve cambiare, e il magistrato deve cogliere ogni occasione di cambiamento. A me non piace l’immagine del magistrato da prima pagina. Ho sempre trovato il mio modello di ispirazione in quello che disse un grande magistrato fiorentino, che è Gabriele Chelazzi: l’animale simbolo del nostro lavoro non è né l’aquila né il leone, ma il mulo. Nel mulo c’è tutto ciò che deve avere un magistrato: la resistenza, la fatica, l’impegno, e l’ostinazione, intesa come ricerca paziente della verità, che è il fine ultimo del processo. Sulle scrivanie abbiamo milioni di carte. Ma dentro quelle carte ci sono persone. Indagati, imputati, vittime. A tutti loro va prestata la stessa identica attenzione, altrimenti abdichiamo alle nostre funzioni».
