Olimpiadi: l’Italia del miracolo sportivo. In attesa di costruire un nuovo boom economico

Marcell Jacobs
(Photo by Odd ANDERSEN / AFP)

Era il 1960 quando Livio Berruti, Nino Benvenuti, la squadra di pallanuoto di Gianni Lonzi e alte stelle nascenti dello sport nazionale, vincevano la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Roma. Nello stesso tempo, quasi senza rendersene conto, l’Italia contadina cambiava pelle: diventando un paese manifatturiero di dimensioni industriali. Ed esplose il boom economico: case nuove, automobili alla portata di tutti, elettrodomestici. Sessant’anni dopo, all’ombra dei cinque cerchi in salsa giapponese, lo sport italiano riesplode: vince in discipline che non ci erano mai appartenute: abbiamo scoperto di essere più veloci, saltiamo di più, nuotiamo meglio. Sappiamo marciare, pagaiare, sparare, combattere sul ring e sul tatami. Sappiamo anche giocare a pallone: come dimostrato agli Europei. Magari non siamo riusciti ad imporci, all’ombra dei cinque cerchi, negli sport di quadra dove siamo sempre stati fortissimi: pallavolo, pallacanestro, pallanuoto. E nemmeno nella scherma, dove vantiamo una solida tradizione.

TRENO DAL SUD – Ma io credo che il parallelo fra i successi dei Giochi di Roma, ossia l’Olimpiade del sole, voluta da un’Italia che, quindici anni prima, era uscita a pezzi dalla seconda guerra mondiale, e il nuovo miracolo sportivo fatto registrare dagli atleti italiani a Tokio e dintorni, si possa fare. L’ha fatto addirittura il Sole 24 ore, il più autorevole e seguito quotidiano economico nazionale, sottolineando che gli ori, gli argenti e i bronzi conquistati in Giappone valgono la spinta delle medaglie di Berruti e soci. E’ proprio così? Diciamo che può far piacere pensare che l’equazione successi sportivi uguale rilancio del Paese possa avere un fondamento. La realtà mi pare un po’ diversa. C’è qualcosa che stride fra il dopoguerra e il post covid (ammesso che si sia arrivati al periodo successivo al virus). Faccio il cronista: ricordo che allora i treni che venivano dal sud portavano, come recitava la canzone, gente nata fra gli olivi, che voleva fare il salto di qualità o semplicemente ritagliarsi una vita meno grama lavorando lontano da casa, non nei campi ma in fabbrica. O nei nuovi laboratori artigiani destinati a svilupparsi nel mondo grazie a ingegno e capacità manuale.

REDDITO DI CITTADINANZA – E faccio ancora il cronista: oggi abbiamo sicuramente una generazione di ragazzi molto motivata nello sport. Che sale sul podio e fa suonare l’inno, come a Roma 1960. Ma nella vita di tutti i giorni abbiamo una situazione diversa rispetto a 60 anni fa: in questo mese molte attività produttive, soprattutto nel settore del turismo, non trovano personale da assumere. Alberghi, ristoranti e bar sono in seria difficoltà. E danno la colpa al reddito di cittadinanza, cioè alla legge che offre soldi a chi non lavora. Seconda l’accusa degli imprenditori che non trovano dipendenti stagionali da assumere, quel reddito sicuro non invoglia i giovani a prendere il terno e a spostarsi, magari per guadagnare solo qualche centinaio di euro in più di quel che gli viene comunque garantito stando a casa senza un contratto.

LAVORO E DIGNITA’ – Accusa giusta? Si e no. Mi spiego: negli anni Sessanta il Paese era guidato da una classe politica molto concreta, anche se impegnata in contrasti e polemiche. Dc contro Pci, la guerra fredda, le lotte operaie. Ma il denominatore comune, sia pure partendo da visioni opposte,  era la crescita. Oggi abbiamo un governo di larghe intese, guidato da un ammiratissimo presidente del consiglio (Mario Draghi), che però deve vedersela con le scelte di due governi precedenti (guidati entrambi da Antonio Conte) orientate a ingessare il Paese più che a farlo crescere. Anche attraverso il reddito di cittadinanza che sarebbe stato anche giusto per dare un ristoro a chi ha perso il lavoro e non ha nulla. Ma ci sarebbero volute regole diverse. Infatti è vero che prendere 700 euro al mese senza far nulla può invogliare a  non scomodarsi per uscire da quel limbo. Ma è altrettanto vero che certi contratti dei lavoratori stagionali non sono accettabili. Morale? Governanti e politici devono chiudere il rubinetto del reddito di cittadinanza ma, contemporaneamente, hanno il dovere di ridare dignità al lavoro di chi viene assunto a termine. E bisogna che anche gli imprenditori, coloro che creano lavoro, ritrovino lo slancio dei favolosi anni Sessanta. Quando andavano per il mondo, in cerca di nuovi mercati, non conoscendo nemmeno l’inglese. Dicevano thank you, very good e il resto in dialetto. Era gente temprata, che non puntava sulla finanza, sulla rendita di posizione o sugli ammortizzatori sociali. Morale? Godiamoci gli ori, gli argenti e i bronzi di Jacobs, Paltrinieri e Irma Testa, ma teniamo conto che il Paese si rilancia, dopo una tragedia come quella del covid, con politiche mirate. E con il coraggio di  imprenditori capaci di scommettere: prima di tutto su se stessi.

 

 

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Sandro Bennucci

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