Omelia di San Giovanni, Betori: “Firenze coltivi l’identità di pace di La Pira”. Fine vita: “Evitare la logica della rinuncia”

Il cardinale Giuseppe Betori (Foto Toscana Oggi)

FIRENZE – Ecco l’omelia del cardinale Giuseppe Betori, pronunciata durante la messa per la celebrazione di San Giovanni Battista, patrono di Firenze, in cattedrale, oggi 24 giugno 2022. Molto importanti i passaggi dedicati alla memoria del sindaco Giorgio La Pira e il monito ai cristiani sul fine vita: “Evitare la logica della rinuncia”.

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Le letture bibliche di questa celebrazione indicano le ragioni della grandezza di san Giovanni Battista e di conseguenza i tratti che da lui dobbiamo cogliere per dare forma alla vita della nostra città, che lo onora come suo patrono, così che questo legame sia vissuto non solo come atto di tradizione e devozione, ma come ispirazione per il suo cammino. 

Dal vangelo apprendiamo che il nome, cioè l’identità di Giovanni scaturisce non da logiche umane ma da un disegno divino, di cui è depositario il padre Zaccaria, che lo ha custodito nel silenzio. Non per celebrarle, ma perché ci siano di ammonimento, riascoltiamo le parole del ven. Giorgio La Pira: «La mia dolce, misurata ed armoniosa Firenze creata insieme dall’uomo e da Dio, per essere come città sul monte, luce e consolazione sul cammino degli uomini» (Discorso al Comitato internazionale della Croce Rossa, Ginevra 12 aprile 1954); e quindi: «Vorremmo che tutti i tesori di storia, di grazia, di bellezza, di intelligenza e di civiltà, che la Provvidenza ha “accumulato” a Firenze, costituissero essi stessi un gigantesco messaggio di pace rivolto a tutti i popoli della terra» (Messaggio di invito al VI Convegno per la pace e la civiltà cristiana, 5 gennaio 1960). Questa chiara identità deve saper coltivare la nostra città. In questo orizzonte alto vanno compresi gesti come l’incontro dei vescovi e il forum dei sindaci del Mediterraneo del febbraio scorso, consapevoli ovviamente che la nostra non potrà mai essere imitazione del “sindaco santo”, ma doverosa attestazione della perenne vitalità della sua memoria, pur nelle inevitabili contraddizioni che porta in sé fare qualcosa. 

Ma il vangelo di Luca ci dice ancora altro e ci parla dell’esistenza di un fanciullo custodita dalla mano di Dio e della sua crescita e rafforzamento nello spirito. Scopriamo così che il giusto sguardo da porre sulla persona umana, qualsiasi sia la sua condizione, non può prescindere dal suo legame con il Creatore e Padre, come pure non può fare a meno di un processo di crescita che ne espliciti e rafforzi identità e missione. Torna attuale il confronto con una cultura che invece esalta l’autonomia e l’autodeterminazione, non come esiti di un processo di assunzione di responsabilità ma come premesse di una rottura di legami con l’altro – l’umano e il divino poco importa –, visto non come colui che ci accompagna ma come un limite che ci ostacola. Non possiamo poi piangere disgregazione sociale e lacerazioni dei rapporti interpersonali se lasciamo credere a tutti, in particolare alle nuove generazioni, che l’affermazione di sé contro l’altro e non la costruzione delle relazioni debba essere il nostro obiettivo. Per poi giungere alla mistificazione con cui le istituzioni europee parlano di aborto e cercano di convincerci che una tragedia si debba trasformare in un diritto. Siamo di fronte a una cultura e a progetti di legislazione che come cristiani non possiamo accettare e che dobbiamo contrastare in ogni sede, senza paura di ribadire che la vita è sempre un dono. Alla cultura del diritto soggettivo contrapponiamo quella dell’accoglienza e del perdono, così che nessuno si trovi solo con la sua pena e sappia di poter trovare sempre casa nel cuore di Cristo e della sua Chiesa.  

E non va trascurata l’annotazione che la crescita per Giovanni si realizza «in regioni deserte» (Lc 1,80). Il deserto, cioè lo sguardo distolto da ogni distrazione e riportato sull’essenziale, la necessità di non sfuggire a sé stessi. «Non uscire da te stesso, rientra in te: nell’intimo dell’uomo [in interiore homine] risiede la verità», ammonisce Sant’Agostino (De vera religione, XXXIX, 72). Di nuovo ci si apre un orizzonte di vita personale e sociale che confligge fortemente con i canoni oggi egemoni, fortemente segnati dalla ricerca dell’apparenza, dal bisogno di dirsi ed esibirsi senza riguardo, dall’aspirazione al consenso sociale a qualsiasi costo. Su questo fronte occorre procedere a un profondo ripensamento di istituzioni e persone che sono coinvolte nei processi educativi e chiedersi come favorire nelle nuove generazioni la crescita del pensiero, del discernimento, del dialogo. Ma non minore responsabilità va richiamata a quanti operano nella comunicazione sociale, nelle sue varie forme, da quelle più tradizionali a quelle oggi maggiormente diffuse nella rete, al fine di sconfiggere la diffusione delle fake news, delle opinioni senza fondamento, della violenza verbale. 

Per i credenti, poi, assume particolare importanza quanto dicono sul Battista gli Atti degli Apostoli, sottolineandone la subordinazione a Gesù. Per Giovanni è naturale dare di sé l’immagine di un servo, anzi meno che un servo: «Viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di slacciare i sandali» (At 13,25b). Eppure quest’uomo che si considera meno di un servo è al tempo stesso colui che prepara la venuta del Salvatore. La salvezza del popolo di Dio passa infatti attraverso le strade di conversione tracciate dal Battista. Un modello per la Chiesa, chiamata a vivere nell’umiltà di sapersi uno strumento, e nulla più, nelle mani di Dio, ma nel contempo a sentirsi responsabile di aprire con coraggio le strade perché il Vangelo di Gesù, parola di salvezza, possa giungere con efficacia e credibilità a incrociare i passi dell’umanità di oggi. 

Un’ultima indicazione ci è suggerita dalla figura del Servo del Signore, delineata nel canto del Deutero-Isaia. Il Battista, come il Servo, ha ricevuto una missione da Dio, quella di farsi strumento di manifestazione della sua parola – «spada affilata» e «freccia appuntita» –, in grado di trafiggere il cuore dell’uomo per risanarlo dalla sua tossicità. È questa una missione che incontra ostacoli, impedimenti, perfino insuccessi che potrebbero indurre alla resa. È quanto potrebbe accadere di fronte a una concezione della vita non accolta come dono, ma pensata come un bene di cui disporre in modo assoluto, dimenticando che un bene, come la vita, la nostra e degli altri, va costudito e tutti dobbiamo sentirci responsabili della sua cura, evitando la logica della rinuncia. 

Su questo possibile scenario si rivela il Signore, per richiamare anzitutto la meta della missione affidata al Servo-Giovanni: far rivivere il legame tra Dio e il suo popolo, ricomponendo questi dalla disgregazione a cui la lontananza da Dio lo ha condannato. Ma la parola del Signore va oltre e svela un orizzonte di universalità che abbraccia tutti i popoli, l’intera umanità, nella sua volontà di salvezza: «Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra» (Is 49,6b). 

Leghiamo anche questo tratto dell’immagine del nostro patrono alla città che ci accoglie come madre e di cui ci sentiamo responsabili. Ritrovare coesione e slancio per il futuro non è possibile senza uno sguardo verso l’alto, senza il riconoscimento di un legame con una presenza che ci dà fondamento, che i credenti chiamano Dio e chi non crede deve pur sentire come la dimensione trascendente che ci costituisce nella nostra umanità. Se non siamo cose o solo esseri animati, ma persone è perché in noi abita questa tensione verso un oltre che ci attrae e dà sicura giustizia e fondata speranza alle nostre aspirazioni. Per questo siamo chiamati a lottare contro il greve materialismo che ci vincola alle misure della quantità e del costo delle cose. Vale per la vita personale e sociale, anche per quella economica. È il volto nuovo di Firenze che ci attende, per chiudere con parole ancora di Giorgio La Pira: «L’idea madre: polemica con la società laica, anticristiana: ritorno a Cristo: edificazione della comunità religiosa e, per riflesso, della comunità civile della città di Dio (il tempio) e, per riflesso, della città dell’uomo. In aedificationem corporis Christi» (In aedificationem corporis Christi, Firenze 2021, p. 23). 

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