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Pensioni: flessibilità in uscita dal lavoro ancora in alto mare. Le proposte del governo non convincono

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ROMA – Il problema più urgente da risolvere nell’ambito dell’ulteriore riforma della riforma pensionistica è quello di accordare la flessibilità in uscita per i lavoratori che si trovano in prossimità dell’età pensionabile. La riforma Monti-Fornero ha realizzato infatti un irrigidimento repentino nei criteri di scelta per il pensionamento in un momento di grave crisi della finanza pubblica. L’inasprimento delle condizioni di uscita “ha congelato” per alcuni anni pensioni a prevalente contenuto retributivo e ha avuto un immediato effetto benefico sul contenimento dei saldi del bilancio pubblico.

Per rendere meno pesante le conseguenze di questo brusco stop il legislatore ha individuato la strada delle salvaguardie, che ha creato una nuova categoria di lavoratori, gli “esodati”, quelli che a seguito dell’inasprirsi della normativa si sono trovati, in condizioni di inattività e non ancora maturi per pensionamento. Il numero dei salvaguardati, fissato nel 2011 a 65mila unità, è cresciuto negli anni, così come è cresciuto il numero delle salvaguardie, arrivate a sette.

Nonostante le salvaguardie, la questione si complica: l’aumento dell’età media di pensionamento ha spostato sui giovani la parte maggiore dei costi della lunga recessione dell’economia italiana. In situazioni di questo tipo, anche le istituzioni internazionali suggeriscono di favorire l’uscita degli anziani, non di bloccarla. Il Governo quindi, consultando anche i sindacati, ha pensato di creare le condizioni secondo le quali chi vuole andare in pensione con un anticipo di due-tre anni lo può fare, con qualche penalizzazione.

L’operazione si potrebbe realizzare senza che il bilancio dello Stato, nel lungo termine, ne risenta: con la conseguenza che se vai in pensione prima l’importo è più basso perché prendi l’assegno pensionistico per un numero maggiore di anni. Una riduzione compresa tra il 3 e il 4 per cento per ogni anno di anticipo è sufficiente ad assicurare il risultato.

Tuttavia, se nel lungo periodo le poste in entrata e in uscita si compensano, è nel breve che i conti non tornano: anticipare il pagamento delle pensioni fa crescere subito la spesa e questo nell’austero mondo del fiscal compact è un problema, anche perché la scarsa flessibilità di bilancio è già stata prenotata da annunci di tagli alle imposte, sul lavoro, personali e societarie, che in questa fase sembrano avere priorità negli obiettivi dell’esecutivo.

Ecco allora la proposta del governo: la flessibilità si può fare, ma sarà il mercato (banche, assicurazioni) a occuparsi di fornire i fondi necessari a chi li richiederà, con piani di ammortamento di venti anni. L’intervento del bilancio pubblico si limiterà probabilmente alla copertura delle spese per i lavoratori più deboli che decideranno per l’anticipo (disoccupati, lavoratori con reddito basso o in settori usuranti).

La strada scelta per realizzare l’obiettivo sembra essere quella del credito di imposta che dovrebbe risultare differenziato in funzione delle condizioni economiche dell’interessato. In questo modo, l’impegno finanziario del settore pubblico si ridurrebbe drasticamente, da 4-5 miliardi a 1 miliardo di euro per anno. Affinché il cerchio si chiuda, però, i lavoratori che vogliono anticipare la pensione devono accettare di indebitarsi e di ricevere una prestazione pensionistica più bassa per almeno vent’anni. Ossia due condizioni che non sembrano poter essere accettate dalla maggioranza dei lavoratori interessati, per cui anche per questa via d’uscita inventata dal governo si prefigura un flop, come lo fu l’idea, poco brillante, dell’anticipo del TFR, rimasto praticamente inattuato.

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