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Brexit: a rischio 23 miliardi di esportazioni italiane. Lo studio di Confindustria

ROMA – All’indomani della bocciatura dell’accordo sulla Brexit, il Centro studi di Confindustria (Csc) ha analizzato lo scenario economico e le conseguenti ricadute per l’Italia. L’aumento dell’incertezza derivante dalle modalità dell’uscita della Gran Bretagna dalla Ue, per il Csc «ha un impatto immediato su sterlina e fiducia dei consumatori, che restano vicine ai minimi e tiene giù anche gli investimenti, rischiando di compromettere le prospettive di crescita dell’economia Uk nel medio e lungo periodo».

Un contesto in cui, a risentirne, saranno anche le imprese esportatrici italiane che rischiano di vedere ridotti i volumi di beni rivolti al mercato britannico con in ballo, secondo Confindustria ben 23 miliardi di euro.

La prolungata incertezza, si legge nell’analisi, potrebbe, tuttavia, “far allontanare alcune multinazionali dal territorio britannico, costituendo un’opportunità per altri paesi europei”. Un’eventualità che pur avendo ricadute positive anche per l’Italia, per Confindustria, non è comunque sufficiente a bilanciare le perdite. Il Csc stima, infatti, che per il nostro Paese gli investimenti diretti esteri potenziali extra potrebbero generare un aumento del PIL di 5,9 miliardi annui. Uno 0,4% che, rileva il Csc, “non è comunque compensativo di rischi ed effetti negativi legati alla Brexit”. Inoltre, per Confindustria, l’Italia è «impreparata a cogliere tali opportunità per ragioni strutturali o istituzionali come una maggioranza di Governo che a tratti non ha esitato a porsi in modo antagonista rispetto alla Commissione Ue», soprattutto sulla manovra.

A livello generale lo studio rivela che nel 2017 l’export Made in Italy verso il mercato britannico ammontava a 23,1 miliardi e nel periodo 2012-2017 il Regno Unito ha coperto una quota media annua di oltre il 5% dell’export italiano nel mondo.

Secondo le previsioni per il Made in Italy, il comparto più colpito dalla Brexit sarà quello di vini e bevande considerato che il Regno Unito attrae circa il 12% dell’export italiano complessivo in questo settore, pari a 1,1 miliardi di dollari nel 2017, e che se si applicassero i regolamenti tariffari tra Ue e resto del mondo, le bevande sarebbero tra i beni sottoposti a barriere tariffarie più elevate con rialzi fino al 19%.

Tra i comparti più a colpiti, dallo studio, emerge anche l’Agrifood. Nel 2017 la Gran Bretagna ha, infatti, importato prodotti agro-alimentari per un valore di 2,6 miliardi di dollari e nei sei anni 2012-2017 ha rappresentato una quota media annua del 7,8%. In questo settore i rischi sono rappresentati dall’aumento delle barriere tariffarie, con rialzi che possono arrivare fino al 35% per i latticini, e dalle ripercussioni derivanti da un eventuale allungamento dei tempi di sdoganamento delle merci, che penalizzerebbe al’export di alcuni prodotti freschi.

Infine, Confindustria, paventa per l’Italia un ulteriore rischio “legato alla frammentazione dei capitali che vengono attualmente concentrati sulla piazza di riferimento londinese” e al conseguente aumento della bolletta da servizi finanziari. Un’eventualità che, per il Csc, genera incertezza sulla capacità dell’Italia di continuare ad allocare il proprio debito in maniera efficiente e con gli stessi costi. Se non si riuscisse, l’aumento dei tassi di rendimento ricadrebbe da una parte su imprese e famiglie e dall’altra sulle banche, con costi più elevati per avere ed erogare credito.

Quindi, secondo Confindustria, un’uscita senza accordo dalla Ue, viste le incertezze politiche nel Regno Unito (ci sarà un nuovo referendum? nuove elezioni? verrà chiesta una proroga alla data di fine marzo del divorzio?), potrebbe spingere alcune multinazionali a fuggire, e alcune potrebbero scegliere come destinazione l’Italia (si calcolano 26 miliardi aggiuntivi di investimenti esteri diretti). E ciò comporterebbe «un aumento del valore aggiunto pari a 5,9 miliardi annui, lo 0,4% del Pil». Peccato – aggiungono gli economisti di viale dell’Astronomia – che l’Italia, «per ragioni strutturali o istituzionali, sia impreparata a cogliere» queste opportunità. Come se, in precedenza, con i governi di centrosinistra l’Italia fosse invece preparata ad ogni evenienza…..

Per quanto riguarda i flussi finanziari, comunque, le authority italiane si sono già attivate, in accordo con quelle europee, per assicurare la continuità operativa delle piattaforme britanniche e anche per consentire la piena operatività degli sportelli italiani delle banche britanniche. Il ministero dell’Economia, Giovanni Tria, sta poi elaborando un decreto proprio per evitare contraccolpi al funzionamento del mercato.

A ogni modo la preoccupazione di un no-deal preoccupa tutta l’Europa. Anche l’eventuale adesione del Regno Unito ai Paesi EFTA (libero scambio) non risolverebbe il problema dei controlli alle frontiere e lascerebbe irrisolta la questione del confine irlandese. In Francia, il premier Edouard Philippe ha già convocato una riunione con i «ministri chiave coinvolti per fare il punto e accelerare» i preparativi in vista di una Brexit senza accordo. Più cauta la cancelliera tedesca Angela Merkel che manda un messaggio a Teresa May: «Abbiamo ancora tempo per trattare, fate una proposta». L’obiettivo resta quello di «una soluzione ordinata», ma aggiunge la Merkel «siamo anche preparati all’opzione che tale soluzione non ci sia».

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