
Gaza: ostaggi liberi in poche ore. Trump a Sharm con arabi e europei (anche Meloni). Ma Hamas non lascia le armi

SHARM EL SHEIK (EGITTO) – Secondo fonti israeliane citate dall’emittente Channel 12, il rilascio degli ostaggi israeliani detenuti da Hamas nella Striscia di Gaza dovrebbe avvenire tra domenica notte e le prime ore di lunedì mattina. Stando ai termini dell’accordo raggiunto da Israele con Hames, il rilascio dovrebbe avvenire entro le 12.30 di lunedì.
Mentre a Gaza stanno tornando decine di migliaia di persone che se n’erano andate. Gaza City è un deserto di macerie, ma chi ci viveva vuole stare lì. Il problema? Hamas ha dichiarato di non voler lasciare le armi. Anzi, avrebbe richiamato circa settemila miliziani per affidargli il compito di presidiare il territorio lasciato dai soldati israeliani.
Un alto funzionario israeliano ha precisato che “non sono chiari a Israele tutti i dettagli relativi alle tempistiche”, spiegando che l’incertezza sarebbe legata ai preparativi logistici da parte di Hamas e non a un intenzionale ritardo da parte del gruppo palestinese. L’emittente ha quindi riferito di colloqui in corso con il Comitato internazionale della Croce Rossa, che coordinerà il trasferimento da Gaza in Israele.
La legittimazione internazionale all’accordo di pace è lo scopo principale con cui il presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, si prepara ad accogliere numerosi leader mondiali a Sharm el-Sheikh, dove presiederà assieme a Donald Trump la cerimonia per la sigla della storica intesa per la fine del conflitto a Gaza. Il presidente americano ha assicurato che “in linea di massima c’è consenso” fra le parti su come funzioneranno le fasi successive, ma ha riconosciuto che “alcuni dettagli devono ancora essere definiti”.
Lunedì Trump sarà in mattinata a Tel Aviv per incontrare le famiglie degli ostaggi israeliani che dovranno essere rilasciati, uno dei passaggi obbligati della prima fase dell’accordo. Che poi con al Sisi celebrerà in mondovisione assieme a quelli dei Paesi mediatori nella trattativa, a partire da Turchia e Qatar, mentre è confermato che non ci saranno Benjamin Netanyahu né rappresentanti di Hamas. Due anni fa, dopo l’attacco del 7 settembre, a fine ottobre al Cairo andò in scena un primo summit della pace nella capitale egiziana, dove paesi arabi e occidentali non trovarono l’intesa sulla dichiarazione finale, ma l’Egitto si riprese un ruolo negoziale cruciale mettendo le basi per una nuova road map verso la soluzione due popoli e due Stati.
Giorgia Meloni c’era allora (fra i pochi leader europei al tavolo) e ci sarà anche all’International Convention Center della città resort sul Mar Rosso. Ci saranno i Paesi del Golfo, l’Europa sarà rappresentata da vari leader, dal francese Emmanuel Macron allo spagnolo Pedro Sanchez. A molti di loro, nei contatti di queste ore, al Sisi ha rimarcato la necessità di blindare l’accordo in un evento di risonanza mondiale, prospettando anche “l’importanza” di dargli legittimità internazionale “attraverso il Consiglio di sicurezza” dell’Onu.
A Sharm el-Sheikh si annuncia quindi soprattutto una cerimonia, confermano fonti italiane, anche se dovrebbe essere previsto un momento di confronto nell’ambito del summit. E al centro ci sono una serie di nodi complicati da più punti di vista per portare avanti le successive fasi dell’accordo. A partire dal disarmo di Hamas, che intanto ha richiamato circa 7.000 membri delle sue forze di sicurezza per riaffermare il controllo sulle aree di Gaza recentemente abbandonate dalle truppe israeliane.
Lontano, ma già attuale nelle trattative, lo scenario del Board per il governo transitorio della Striscia. Roma si aspetta un coinvolgimento, alla luce del ruolo di Paese dialogante con tutti rivendicato più volte in questi giorni da Meloni. Si tratta però di una dinamica guidata da Usa, Israele e Arabia Saudita.
In quest’ottica il governo italiano sta dando ampia disponibilità a partecipare “in prima linea” alla fase della ricostruzione di Gaza. Non solo dal punto di vista delle opere infrastrutturali necessarie in un territorio che ha subito perdite per 70 miliardi di dollari secondo stime palestinesi. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha ribadito la disponibilità del governo “a mandare i carabinieri e quelli che operano già a Gerico per la formazione della polizia palestinese, oppure i militari se sarà necessario”.
“Palestinesi e israeliani chiedono i carabinieri italiani – ha spiegato il ministro della Difesa Guido Crosetto – perché nel mondo non sono abituati a vedere un militare che prima di puntarti l’arma ti tende la mano”. Nemmeno gli Stati Uniti per ora sono intenzionati a inviare militari all’interno di Gaza, e al momento non è previsto che vengano schierati i carabinieri. Secondo quanto filtra, si starebbe ragionando sul rafforzamento del contingente della missione Miadit a Gerico (a un centinaio di chilometri da Gaza), dove l’Arma addestra le forze di sicurezza palestinesi.
La dimensione degli sforzi italiani sul terreno sarà più chiara quando si capirà se il post cessate il fuoco sarà inquadrato in una risoluzione Onu. Crosetto si augura infatti “un coinvolgimento di tutto il mondo” perché “la Nato è considerata di parte”. Un’altra ipotesi, sempre in quella cornice, può essere il supporto del Genio militare dell’Esercito italiano per rimuovere mine terrestri e ordigni bellici a Gaza. Lo scenario, al momento, non è considerato idoneo a coinvolgere la Protezione civile.
Ma si sta valutando la fattibilità di un piano per allestire ospedali da campo nella zona sud di Gaza, una soluzione già valutata tempo fa e accantonata per la mancanza di acqua pulita. Intanto Tajani ha prospettato investimenti per “50 milioni di euro subito” e l’invio di aiuti attraverso il progetto Food for Gaza “di altri beni alimentari che stiamo raccogliendo. Poi parteciperemo alla ricostruzione in tanti servizi, anche nella sanità forti dell’esperienza degli interventi post terremoto”.
