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Cardinale Giuseppe Betori

Betori: «Rifiutate prodotti frutto della schiavitù nel lavoro»

Cardinale Giuseppe Betori
Cardinale Giuseppe Betori arcivescovo di Firenze

FIRENZE – Alcuni pastori nella grotta di Betlemme con Maria, Giuseppe e il bambino Gesù: è il primo incontro dell’umanità con il Figlio di Dio fatto uomo. Sollecitati dalle parole dell’angelo, con grande sollecitudine, «senza indugio» (Lc 2,16), i pastori si sono messi in cammino verso Betlemme e sono giunti a un presepe, alla mangiatoia di una stalla, il luogo destinato al ricovero degli animali, dove sta il Salvatore del mondo.

​Le scena dell’adorazione dei pastori è segnata da estrema povertà e semplicità; e povertà e semplicità ne caratterizzano i protagonisti: l’umile famiglia giunta da Nazaret, che ha al suo cuore la fragilità di un bambino, e i pastori, gente del popolo, proveniente dai suoi livelli più modesti, anzi da uno dei settori sociali più marginali, sia economicamente, per la precarietà dei profitti che ci si poteva aspettare dall’attività da loro svolta, sia religiosamente, per le non poche violazioni della legge che si trovavano a commettere a causa del loro stesso mestiere.

​Già questo aiuta a individuare dove indirizzare gli auspici che siamo soliti scambiarci all’inizio di un nuovo anno. Se non vogliamo perdere la strada verso Betlemme, l’augurio non può rivolgersi alla crescita della prosperità materiale, al raggiungimento di ambiziose scalate sociali, all’approdo a confortanti posizioni di tranquilla sicurezza. Chi si ritrova nella grotta di Betlemme è gente che viene da impegnativi cammini, che affronta incerti futuri, che non può aspirare ad affermazioni di sé.

​Queste considerazioni ci aiutano anche a capire la benedizione che Dio affida ad Aronne per il popolo e che la Chiesa ci ha proposto come prima lettura di questa celebrazione: «Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia» (Nm 6,24-25). La benedizione del Signore e l’essere da lui custoditi, la sua luce che brilla su di noi e il dono della sua grazia e di ogni possibile bene, non sono una rassicurazione che nulla ci turberà e che ogni problema sarà cancellato dalla nostra vita, ma la garanzia che nel cammino faticoso della vita non siamo soli e che l’esito di questo cammino, se compiuto nella fedeltà al Signore, è il dono di lui e quindi di ogni bene per noi, la sua pace: «Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace» (Nm 6,26)

​Questa presenza amichevole e potente è ciò che dà forza ai nostri giorni e apre scenari di speranza per il futuro. L’augurio che ci scambiamo sia dunque quello di far crescere nel nostro cuore la coscienza di questa presenza, di vivere in questa presenza e di cercare in essa e in nessun altra realtà, a cominciare da noi stessi, il sostegno nel nostro cammino.

​Di questa coscienza la pagina del vangelo ci offre il più alto modello in Maria, la Vergine Madre, che, «da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19). È questo l’atteggiamento contemplativo che accompagna Maria in tutta la sua vita, dall’annuncio dell’angelo fino alla croce, e poi nella sua presenza orante nella comunità dei discepoli del Risorto. Su di esso si fonda l’accoglienza della missione che il Padre le affida, quella di diventare la Madre di Dio. Con questo titolo oggi la celebra la Chiesa, indicando nel mistero della maternità divina di Maria la porta che l’umanità ha aperto alla presenza del Salvatore nella sua storia. Mediante Maria, che si fa madre del Figlio di Dio nel tempo, questi viene a condividere la nostra condizione umana e, in forza della comunione che così stabilisce con ogni uomo e donna, vuole essere riconosciuto nel volto di ogni fratello e sorella, soprattutto di quanti soffrono e chiedono di essere accolti nella pienezza della loro dignità.

​A questa prospettiva di impegno per la piena umanizzazione della condizione umana, la Chiesa dedica il primo giorno di ogni anno, Giornata Mondiale della Pace, giunta oggi alla sua 48ª edizione. In questo anno il Papa, nel suo Messaggio, invita a considerare come siano tanti, troppi gli uomini e le donne nel mondo che ancora oggi vengono privati della loro libertà e della loro autonomia. Il tema è così enunciato: “Non più schiavi, ma fratelli”, e mette in luce i molteplici modi con cui si dà «sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo», fino «a calpestare i diritti fondamentali dell’altro e ad annientarne la libertà e la dignità». Tutto ciò si esprime in «rifiuto dell’altro, maltrattamento delle persone, violazione della dignità e dei diritti fondamentali, istituzionalizzazione delle diseguaglianze».

Il Papa osserva che se l’istituto della schiavitù è stato formalmente abolito nel mondo, tuttavia «ancora oggi milioni di persone – bambini, uomini e donne di ogni età – vengono private della libertà e costrette a vivere in condizioni assimilabili a quelle della schiavitù». L’elenco che Papa Francesco propone è sconvolgente: lavoratori e lavoratici, anche minori, asserviti in condizioni di lavoro illegali e senza tutela; migranti spogliati di beni e abusati nel corso dei loro drammatici tragitti e poi costretti ad accettare nell’illegalità indegne condizioni di vita e di lavoro; persone, tra cui molti minori, costrette a prostituirsi, schiave e schiavi sessuali, donne forzate a sposarsi o vendute in vista del matrimonio; minori e adulti fatti oggetto di traffico e di mercimonio per l’espianto di organi, per essere arruolati come soldati, per essere destinati all’accattonaggio, per produrre e vendere sostanze stupefacenti, per forme mascherate di adozione internazionale; infine, quanti sono tenuti in cattività da gruppi terroristici.

​È un elenco spaventoso, che denuncia la barbarie di un mondo, le cui radici sono anzitutto in una concezione della persona umana privata della sua inviolabile dignità e considerata come un oggetto, come un mezzo e non come un fine. Ma accanto a questo peccato di fondo il Papa aggiunge altre condizioni che favoriscono il permanere e diffondersi delle varie forme di schiavitù: il mancato accesso all’educazione, le scarse o inesistenti opportunità di lavoro, la corruzione, i conflitti armati, le violenze, la criminalità e il terrorismo. Proprio questi rilievi ci fanno rendere conto che le strade che portano a possibili condizioni di schiavitù sono meno lontane da noi di quanto potremmo pensare.

​Si inserisce a questo punto l’interrogativo circa gli impegni che occorre assumere per rimuovere le situazioni di schiavitù nel mondo. E il Papa parte dalla positiva constatazione che non mancano iniziative di contrasto e soprattutto di accoglienza e accompagnamento delle vittime; egli ricorda in particolare l’azione svolta da molte congregazioni religiose femminili, impegnate specialmente contro la tratta delle donne per la prostituzione. Ma è necessario anche fare pressione sulle istituzioni nazionali e internazionali, perché attuino politiche di prevenzione, di protezione delle vittime, di azione giudiziaria nei confronti dei responsabili. Responsabilità ricadono anche sulle imprese e sugli stessi consumatori, che sono invitati a rifiutare prodotti frutto di un lavoro svolto in condizioni di schiavitù. A tutti il Papa chiede «di non rendersi complici di questo male, di non voltare lo sguardo di fronte alle sofferenze dei loro fratelli e sorelle in umanità, privati della libertà e della dignità, ma di avere il coraggio di toccare la carne sofferente di Cristo, che si rende visibile attraverso i volti innumerevoli di coloro che egli stesso chiama “questi miei fratelli più piccoli” (Mt 25,40.45)».

​Queste le parole conclusive di Papa Francesco, che sono anche le mie: «Sappiamo che Dio chiederà a ciascuno di noi: “Che cosa hai fatto del tuo fratello?” (cfr. Gen 4,9-10). La globalizzazione dell’indifferenza che oggi pesa sulle vite di tante sorelle e di tanti fratelli, chiede a tutti noi di farci artefici di una globalizzazione della solidarietà e della fraternità, che possa ridare loro la speranza e far loro riprendere con coraggio il cammino attraverso i problemi del nostro tempo e le prospettive nuove che esso porta con sé e che Dio pone nelle nostre mani».

 

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