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Clinton vs Bush, si prepara la rivincita?

Hillary Clinton e il presidente Obama a pranzo lunedì 29 luglio 2013 (Official White House photo by Chuck Kennedy)
Hillary Clinton e il presidente Obama a pranzo lunedì 29 luglio 2013 (Official White House photo by Chuck Kennedy)

Il secondo mandato di Barack Obama è solo all’inizio, mancano ancora 36 mesi alle prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti, ma la politica americana, un po’ come New York, non dorme mai e fra posizionamenti ufficiali o meno, raccolte fondi e un occhio ai sondaggi, a Washington è già partita la corsa alla successione.

Il presidente democratico nell’ultimo anno ha dovuto affrontare molte crisi nazionali e internazionali, ma fino a poche settimane fa il suo indice di approvazione era molto alto, anche dieci punti superiore rispetto a quello di chi non condivide il suo operato. E’ con la cannoneggiante battaglia repubblicana contro la riforma sanitaria che è iniziata la discesa. La legge ribattezzata Obamacare, infatti, garantisce sì la copertura a 50 milioni di americani finora rimasti senza, ma allo stesso tempo ha un costo esorbitante, stimato in 800 miliardi di dollari, e un’infinita serie di codici e cavilli rinchiusi in 2800 pagine che faranno la fortuna delle assicurazioni, le quali non sono rimaste a guardare ma in tutta la partita hanno sapientemente indirizzato il Congresso grazie a un legale e costante lavoro di lobbying.

Per l’elettore americano (tendenzialmente poco incline all’ingerenza dello Stato nella propria vita anche di fronte all’assistenza che in Europa consideriamo “universale”) ce n’è abbastanza per dire basta. E così anche la radicale iniziativa dei repubblicani guidati dallo speaker della Camera dei rappresentanti (dove hanno la maggioranza) John Boehner di non votare il nuovo limite del deficit (che dovrebbe garantire la possibilità al governo di continuare a spendere) come ricatto politico affinché Obama ritiri la riforma sanitaria viene giudicato in modo assai positivo dagli elettori americani. Lo shutdown ha fatto chiudere uffici pubblici e monumenti, potrebbe essere l’anticamera del default, ma non pare stia preoccupando più di tanto gli americani che – contrariamente a quanto avviene in Europa – per la maggior parte vivono del loro lavoro, svincolato dalle pubbliche amministrazioni.

Obama ci ha comunque messo la faccia, ha chiamato in soccorso il past president Bill Clinton, ed è difficile che torni sui suoi passi rispetto a una norma che viene considerata il testamento politico della presidenza: più probabile che le due parti arrivino a una mediazione, più o meno onorevole. Anche perché i democratici – così come i repubblicani – devono guardare avanti: alla prossima presidenza. E devono farlo per tempo, anche se la polemica politica sta raggiungendo toni estremamente alti per i decibel della politica di Oltreoceano.

Ad approfittarne potrebbero essere i repubblicani, fuori dalla Casa Bianca negli ultimi due mandati. Ma con quale “cavallo” da primarie? Un colpo a sorpresa potrebbe proprio essere Boehner se non finirà sfibrato nella guerra contro la Casa Bianca, ma per ora i candidati maggiormente accreditati della vittoria interna sono il governatore “extralarge” del New Jersey Chris Christie che ha origini italiane (madre siciliana) ed è considerato un moderato nel partito, oppure Jeb Bush, il “fratello giusto” come ironicamente viene chiamato sui social media. Ex governatore della Florida, il primogenito di George H. Bush avrebbe tutte le carte in regola per entrare nell’Oval office già frequentato dal padre e dal fratello: amato dai moderati, ma non osteggiato dai Tea Parties, ha buoni rapporti con latinos e cubani, oltre a un’ottima capacità di raccogliere fondi.

E proprio l’elettorato delle minoranze – che ha fatto la fortuna iniziale di Obama – potrebbe  essere inseguito dai repubblicani con la preparata Condoleezza Rice, ex segretario di Stato con Bush figlio oppure con l’enfant prodige della politica di Miami, senatore Marco Rubio, che diventerebbe il primo presidente cubano-americano. In mezzo ci sono i senatori Paul Ryan, Ted Cruz e soprattutto Rand Paul, il teorico dello Stato minimo adorato dai Tea Parties che le ultime rilevazioni di Quinnipiac sulla Republican Presidential Nomination del 2016 danno come candidato da battere con il 17 per cento delle preferenze, contro i 13 punti di Christie, i 12 di Rubio, gli 11 di Bush, i dieci punti di Cruz e Ryan. Insomma, tutto può ancora succedere, ma lo scacchiere delle primarie repubblicane si sta iniziando a comporre e le tendenze saranno già ben visibili nei prossimi mesi.

Se i Repubblicani dovranno giocare la loro partita, nel campo democratico il match sembra chiuso prima di iniziare a favore di Hillary Clinton. E’ vero che il vice di Obama, Joe Biden, potrebbe provare a misurarsi per arrivare nell’Oval office, ma al momento sarebbe più che altro un esercizio di stile: secondo la rilevazione Quinnipiac per la Democratic Presidential Nomination del 2016 Hillary Clinton è accreditata del 61 per cento, contro gli 11 punti di Biden e poi a seguire Warren 7, Cuomo 2 etc.

Naturalmente, l’ex first lady prima dell’Arkasas e poi degli Stati Uniti, già segretario di Stato e senatore  dello Stato di New York ancora non ha sciolto le riserve, ma è probabile che stia solo aspettando il momento giusto. Del resto, per lei sarebbe l’ultima chiamata. E a giudicare dalla raccolta fondi che sta portando avanti non sembra voglia lasciarsela scappare, come è facilmente visibile anche dal sito di supporter Ready for Hillary.

Dunque, tutto già deciso? Non proprio. Nel gennaio 2007, quando dal salotto di casa pronunciò il famoso discorso “I’m in” per scendere nella contesa tutti gli analisti politici avevano scommesso che sarebbe arrivata alla Casa Bianca senza troppi intoppi. La storia ci dice che non fu così. Nel 2016, otto anni e due mandati dopo un Obama che si è appropriato (ma solo dopo le elezioni) dello storico cavallo di battaglia di Hillary, ovvero la riforma sanitaria che già provò a realizzare da first lady senza successo, sono tanti gli ostacoli che Hillary avrebbe di fronte. Primo fra tutti quello di un Paese che si sta radicalizzando, anche perché la ripresa (che bontà loro lì è già realtà) per ora sta producendo più profitti che posti di lavoro, facendo scivolare verso il basso quella middle class istruita delle grandi città, storico bacino di voti del partito dell’Asinello.

Tirando le somme, non è peregrino immaginare una rivincita familiare Bush vs Clinton come quella del 1993. E dall’esito per nulla scontato. Allora Bush uscente venne sacrificato dagli elettori dopo la vittoriosa campagna in Kuwait che però non accontentò la “pancia” degli americani lasciando il dittatore Saddam Hussein al suo posto e soprattutto dopo non aver onorato la promessa “No more taxes” sulla quale l’ingombrante terzo incomodo Ross Perot riuscì a costruire un (alla fine inutile) notevole consenso politico, aprendo la strada per la presidenza Clinton.

Questa volta i repubblicani si sono già scatenati, parlando del ritorno della “moglie dell’ex amante di Monica Lewinski”, mentre i democratici proseguono una potente campagna che parte fin dalla Casa Bianca e dipinge i repubblicani come irresponsabili. Sia i Bush che i Clinton hanno avuto soddisfazioni e delusioni dalla politica degli ultimi decenni: le primarie però potrebbero essere terreno fertile per loro nei rispettivi partiti. Certo, non avranno lo stesso fascino iconografico dei Kennedy ma alla fine si tratta di due dinastie estremamente importanti per l’America, che potrebbero avere ancora molto da dire al Paese e al mondo intero.

America

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