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Brexit: la Gran Bretagna si avvia al referendum sull’Europa con qualche patema

Londra
Londra

LONDRA – Mentre in Italia si incrociano commenti e scontri dialettici sull’esito del referendum sulle trivelle, in Gran Bretagna infuria da settimane la polemica su un referendum molto più importante, che sarà essenziale non solo per i destini di Cameron, ma anche per lo stesso futuro dell’Europa: gli inglesi dovranno scegliere se restare nella Ue o abbandonare il mercato comune. La Gran Bretagna è ormai formalmente in campagna elettorale per il referendum del 23 giugno: voto con il quale il Regno Unito si giocherà in un giorno solo il futuro europeo e che potrebbe trasformare la Manica in un fossato, con conseguenze imponderabili per la stabilità dell’intero vecchio continente.

In attesa del prossimo arrivo di Barack Obama, l’amico americano che guarda apertamente alla Brexit come a un pericolo, i due schieramenti – pro e contro il ‘divorzio’ da Bruxelles – affilano le armi per lo scontro finale, evocando paure contrapposte. Gli allarmi continuano a riecheggiare anche nel mondo finanziario: negli ultimi giorni l’ad di Deutsche Bank, John Cryan, ha dichiarato senza mezzi termini che la City potrebbe perdere il predominio del forex, il mercato valutario, in caso di Brexit, mentre London School of Economics ha stimato che un quinto degli investimenti diretti nel Paese possano volatilizzarsi.

Sul piano politico la guerra di parole dilania in particolare il Partito Conservatore del premier David Cameron. Nelle ultime ore sono saliti sul proscenio gli euroscettici di ‘Vote Leave’, la piattaforma scelta come rappresentante riconosciuto del voto anti-Ue con gran dispetto del cartello alternativo guidato dal tribuno dell’Ukip Nigel Farage. Protagonisti recenti, il sindaco di Londra, Boris Johnson, e il ministro della Giustizia, Michael Gove, i due Tory di maggior spicco dissidenti dalla linea di Cameron che, presentando appunto le insegne di ‘Vote Leave’, hanno fatto balenare l’idea che uscendo dall’Unione Europea si potrebbero riversare nelle casse del malconcio sistema sanitario nazionale di Sua Maesta’ (Nhs) parte dei miliardi di sterline spesi adesso per stare nel Club dei 28. E per sostenere una burocrazia che – nelle parole di Gove – «non abbiamo eletto, non abbiamo scelto e non vogliamo».

Argomento populistico, hanno replicato a stretto giro i rivali di ‘Britain Stronger in Europe’, il fronte ufficiale del no alla Brexit, bollando ‘l’azzardo isolazionista’ come un Project Fantasy carico d’incognite e denunciando la promessa di riempire di soldi gli ospedali come un espediente di bassa lega: tenuto conto che uno studio commissionato a Pricewaterhouse-Coopers dalla Cbi, la confindustria britannica, svela che Londra, grazie al mercato unico, guadagna qualcosa come 90 miliardi di sterline all’anno, vale a dire 9 volte l’ammontare netto dei contributi al bilancio comunitario.

A vantaggio del fronte del si’ all’Europa resta la sua natura trasversale. Se ieri Cameron – in difficoltà con i sondaggi in seguito allo scandalo Panama Papers – si e’ ritrovato al fianco, almeno sulla trincea referendaria, il leader laburista Jeremy Corbyn, alfiere di una sinistra radicale che in passato era stata ostile all’Ue e al referendum del 1975 (quello in cui a dividersi fu proprio il Labour, all’epoca della premiership di Harold Wilson) aveva votato ‘no’ in dissenso da Downing Street, oggi puo’ incassare il messaggio di sostegno giunto da Washington. La Casa Bianca ha confermato la visita a Londra di Obama il 22 e 23, premurandosi di manifestare esplicitamente – per bocca di Charlie Kipchan, consigliere per gli affari europei dello staff presidenziale – il timore che la Brexit possa danneggiare l’Ue. Visita durante la quale il presidente Usa sara’ ricevuto a Windsor dalla regina Elisabetta all’indomani del 90esimo compleanno di lei, ma soprattutto testimonierà visibilmente la vicinanza a Cameron: nel pieno della battaglia referendaria e in barba ai malumori dei signornò. Che però appaiono ogni giorno di più guadagnare terreno.

Un rapporto di 200 pagine del ministero del Tesoro segnala, allarmato, che il reddito nazionale britannico potrebbe perdere il 6% entro il 2030 se il Regno Unito lasciasse davvero l’Ue con il referendum sulla Brexit del 23 giugno.Il rapporto traccia lo scenario shock di una Gran Bretagna colpita nei suoi vitali interessi commerciali e impoverita nella sua gente per decenni, una volta consumato l’ipotetico divorzio da Bruxelles. Stando a questa analisi, la prevedibile contrazione del Pil si tradurrebbe in una perdita media equivalente a 4.300 sterline all’anno per ogni famiglia britannica.

Il voto inglese, se risultasse favorevole all’uscita della Ue, potrebbe provocare una valanga di altri referendum in molti altri Paesi, Italia compresa. E non è detto che in qualche Stato Ue, di vecchia o recente acquisizione, una consultazione referendaria di questo tipo non tenti le popolazioni – sempre più infastidite ed impaurite dall’arrivo irrefrenabile di profughi e dall’impotenza della Ue anche in questo campo – di decidere l’uscita dall’Unione, considerata da molti un carrozzone mangiasoldi e una fabbrica di norme inutili e talvolta controproducenti.

Brexit, europa, referendum

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