Arno, 26 settembre 1988: partì la spedizione de La Nazione. E 30 anni dopo il fiume fa sempre paura
Era il 26 settembre del 1988, trent’anni fa. Partimmo, con i gommoni e con le jeep, per andare a esplorare l’Arno: dalla sorgente sul Monte Falterona, dove c’è la lapide con i versi di Dante («Quel fiumicel, eccetera, eccetera») fino alla foce, a Marina di Pisa. Dove sbarcammo domenica 2 ottobre. Una spedizione organizzata da La Nazione e voluta da un grande direttore dell’epoca, Roberto Ciuni, per valutare lo stato di salute di un fiume che non è mai guarito. A bordo, per raccontare l’affascinante viaggio, due cronisti, il sottoscritto Sandro Bennucci e il collega Maurizio Naldini, con il fotografo Luca Moggi, autore di scatti forti come denunce. Con noi undici professori dell’Università di Firenze, ossia undici scienziati, profondi conoscitori del fiume nelle sue mile articolazioni, dalla biologia alla chimica, dalla geologia all’ingegneria idraulica: Guido Ferrara, Paolo Tacconi, Ignazio Becchi, Fiorenzo Mancini, Renato Cini, Paola Cellini, Paolo Billi, Enio Paris, Giovanni Pranzini, Francesco Pantani, Pierluigi Aminti. In cabina di regìa, come coordinatore dell’impegnativa comitiva, Francesco Carrassi, allora capo redattore e oggi (per la seconda volta) direttore del giornale.
ALLUVIONE – Due anni prima, 1986, avevamo celebrato il ventesimo anniversario dell’alluvione del 4 novembre 1966. Nei nostri occhi era rimasta quella linea nera di fango e nafta, figlia dell’onda alta sei metri che aveva invaso e devastato Firenze e due terzi della Toscana. Un’onda il cui ricordo faceva ancora paura perchè sapevamo bene che continuavamo a essere indifesi contro una nuova «mattana» dell’Arno. Che di mattane ne aveva compiute oltre sessanta dall’anno Mille in poi, ossia dalla prima alluvione storicamente certificata, fino al diluvio del ’66, con i fiorentini impegnati a rimettere in sesto la città che aveva rischiato di sparire come una mitica Atlantide e il loro giornale, La Nazione, a fare da sentinella, da cane da guardia pronto a svegliare il governo di Roma dal suo torpore. Ci pensò un altro grande direttore, Enrico Mattei, a richiamare all’ordine il presidente della Repubblica del tempo, Giuseppe Saragat, e il premier di allora, Aldo Moro. Purtroppo ancora oggi, dopo aver abbondantemente superato il mezzo secolo dalla straripante follia del fiume, il pericolo non è passato. Peggio: le sponde dell’Arno sono state più cementificate e il cambiamento climatico rende la nostra comunità ancora più vulnerabile. Nel 1996, dopo l’alluvione nell’Alta Versilia, proprio La Nazione scoprì la calamità che fa paura: la bomba d’acqua. Fummo in primi al mondo a dare il nome alla pioggia violenta e concentrata: appunto la bomba d’acqua. Usammo quest’espressione per titolare una mia intervita al professor Raffaello Nardi, segretario dell’Autorità di bacino dell’Arno. Il suggerimento mi arrivò anche da un grande climatologo: il professor Giampiero Maracchi, che ci ha lasciato da alcuni mesi.
SPEDIZIONE – Dunque partimmo, quel lunedì 26 settembre. Dal Falterona fino a Stia troammo un fiumicello pulito, un Arno quasi da bere. Primi problemi, d’inquinamento e di sponde non messe bene, nel Casentino. Peggio ci sentimmo nel Valdarno. Dopo le dighe di Levane e La Penna, guardate con sospetto dopo l’alluvione (ma non avevano colpe nel disastro perchè possono contenere poca acqua rispetto alla valanga da 200 milioni di metri cubi che travolse Firenze), acqua scura e sponde rovinate. Spariti i contadini, nessuno si preoccupava più di riassestare la terra e proteggere gli argini. A Firenze fu bellissimo scorrere sui gommini sotto i ponti. Paesaggio spettrale dopo Lastra a Signa: Arno cupo e sudicio. Colpa degli scarichi della zona del Cuoio, allora senza depuratore. A Pontedera lo Scolmatore doveva essere completato. A Pisa, sui lungarni un po’ tristi, stile Leopardi, si notava comunque maggiore attenzione. A Marina di Pisa, dopo i retoni dei pescatori, grandi massi sistemati a pettine non riuscivano a salvare la spiaggia dall’erosione. La pineta di San Rossore mostrava l’aggressione della salsedine. Invano un presidente della Repubblica, Sandro Pertini, aveva convocato scienziati da tutto il mondo per cercare di salvarla.
RAPPORTO – Ogni giorno, tappa dopo tapp, raccontammo lo scempio, ma anche gli avvistamenti di pesci e il volo festoso degli uccelli, in particolare degli aironi cinerini. I professori di chimica e i loro assistenti prelevavano campioni d’acqua da analizzare. Scura e inquinata in molti tratti. Lo zampillìo di Stia era solo un ricordo. Risultato? Un rapporto voluminoso, corredato di articoli, foto e puntuali osservazioni dei professori, consegnato all’allora presidente della Regione Toscana, Gianfranco Bartolini. Un anno dopo, 1989, nacquero le autorità di bacino. L’Arno, come accennato, fu affidato al professor Nardi che, dieci anni dopo, disegnò il piano di bacino, con tutte le indicazioni per metere in sicurezza il fiume. Ci sarebbero voluti tremila miliardi di vecchie lire. Mai trovati da nessun governo. Oggi, come detto, la situazione non è cambiata. Siamo solo più vecchi di trent’anni. E magari un po’ più tristi. Anche se pronti, questo si, a rifare un’altra spedizione.