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Firenze, domenica delle palme: l’omelia di Betori. Strage di Mosca: “Gesù non venne su un cavallo di guerra ma su un asinello di pace”

Il cardinale Giuseppe Betori (Foto Toscana Oggi)

Pubblichiamo integralmente l’omelia del cardinale arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori, pronunciata durante la messa della Domenica delle Palme, oggi, domenica 24 marzo 2024

La liturgia della domenica delle Palme apre le porte alla Settimana Santa, nella quale ripercorriamo il mistero d’amore di Dio per l’umanità, manifestato attraverso il sacrificio di Gesù sulla croce. Siamo chiamati a essere non semplici spettatori di un evento religioso, ma credenti che desiderano attingere al dono di grazia che è la vita di Cristo, discepoli in cammino sulle orme del Signore. 

Il segno messianico dell’ingresso a Gerusalemme è un vero e proprio rovesciamento di prospettiva compiuto dal Signore: viene stravolta l’immagine, auspicata ed osannata dalla folla, temuta dai vertici politici e religiosi della città, di un salvatore capace di liberare attraverso la forza cieca della violenza e la subdola soggezione del potere. Egli non sale su un cavallo per la guerra, ma su un umile asinello di fatica e di pace. 

Gesù non viene nel mondo a calpestare le vite degli uomini; egli viene a risollevare l’umanità dal giogo del peccato, pagando il riscatto dal male sul proprio corpo: presentando il dorso ai flagellatori, le guance a coloro che gli strappano la barba; la faccia agli insulti e agli sputi (cfr. Is 50,6).

Il Messia ha un solo segno di riconoscimento: la forza della sua debolezza, plasmata dalla piena fedeltà alla volontà del Padre. Il Signore lascia che la forza del suo amore divino abbracci e trasfiguri ogni aspetto dell’esistenza umana, mortalmente ferita dal peccato. Egli si fa compagno di viaggio capace di affiancare ogni esistenza, nessuna esclusa: la più debole, la più ferita, la più contraddittoria, persino quella ostile.

E in questo cammino di spoliazione e di svuotamento che lo porterà all’ora del Golgota, la testimonianza di Gesù è corredata dai gesti compiuti da alcuni uomini e donne attorno a lui, piccoli segni di speranza che ci parlano ancora di lui, del compimento della sua missione e dell’amore del Padre. Ricordiamone alcuni.

Il coraggio della sconosciuta donna di Betania, nella casa di Simone il lebbroso, nei primi versetti del racconto di Marco, rompe gli schemi del sentire comune: la vita umana nella sua preziosità somiglia molto a quel vaso di alabastro, che emana buon profumo e che verrebbe voglia di custodire integro, intatto. Lei, con forza profetica, rompe l’involucro e unge il capo di Gesù, facendo “una azione buona” capace di ricordare a lui il prossimo compimento della sua vita: se l’unzione in sé è per la sepoltura, a sovrastare il cattivo odore della morte sarà non la preziosa fragranza di un olio quanto la gioia della Resurrezione. L’offerta sulla croce non è “una vita sprecata” ma donata, non una tragedia evitabile quanto il vertice di un’inevitabile testimonianza d’amore. Ci insegna a essere olio di consolazione per i fratelli. 

L’inusuale presenza di un uomo con una brocca d’acqua, un comportamento che sovverte il costume del tempo che affidava questo compito alle donne, si dimostra risolutiva per condurre i discepoli al luogo predisposto per la cena pasquale. All’umanità assetata di assoluto e di senso, il Messia, servo umile e fedele, va incontro, ne ascolta le richieste e compie con loro e davanti a loro il tragitto verso casa, cioè verso quel luogo familiare dove sono attesi e tutto è già predisposto per vivere nella piena comunione con Dio. E di questa realtà di comunione Gesù non lascia un simbolo vuoto, ma il segno pieno della sua intera vita, capace di sfamare e dissetare l’umanità. 

Ci interroga, ancora, la fuga rocambolesca di un giovane, che segue Gesù fino al momento dell’arresto al Getsemani. Quel ragazzo, che è l’ultimo tra i discepoli a restare accanto a Gesù, sembra voler sfidare le parole che Gesù aveva detto ai suoi: «Tutti rimarrete scandalizzati, perché sta scritto: Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse» (Mc 14,27). Nessuno con le sue forze è in grado di condividere il destino di Gesù e, come aveva detto il profeta, «Il più coraggioso tra i prodi fuggirà nudo in quel giorno» (Am 2,16). Se non si è in grado di accettare le esigenze radicali del discepolato, non resta che fuggire e, perdendo la propria veste, svelare nella propria nudità la condizione di peccatore, come era accaduto ad Adamo ed Eva dopo il peccato. 

Infine, Simone di Cirene, che rientra dalla campagna, viene costretto a portare la croce di Gesù. Egli offre così un lieve sollievo momentaneo che alleggerisce le spalle del condannato, ma il suo gesto dice di più. Non perché per Marco egli costituisca un modello di discepolo, come invece è nel vangelo di Luca; per il nostro vangelo lo presente come un gesto che gli viene imposto. Eppure, pur nella costrizione, egli ci rappresenta nella vicinanza a Cristo, come può accadere nella vita di ciascuno, in cui le sofferenze spesso non sono frutto di una scelta, ma si abbattono su di noi e, come per Simone, devono essere vissute come partecipazione alla Passione del Signore. 

Gesù, è davvero il Figlio di Dio, che offre la vita in riscatto per noi, entrando, umile e povero, in Gerusalemme. Il Messia, fragile e debole, è davvero il segno inequivocabile dell’amore salvifico di Dio.

Facciamoci anche noi suoi discepoli, lasciamoci rendere anche noi piccoli segni di speranza, capaci di offrire la vicinanza di Cristo a chi è nella sofferenza e nel dolore.

In questa domenica, nella quale celebriamo la trentaduesima Giornata dei Missionari Martiri, lasciamoci guidare anche dal loro esempio di vita, fedeli al Signore, fino all’effusione del sangue. Vite donate per i più deboli, spalle che hanno saputo portare il peso delle vite oppresse, esistenze che non si sono lasciate imprigionare dalla stretta del male, anch’essi, come Cristo ed in lui, sono già nella gioia della Pasqua.

Betori, domenica delle palme, omelia

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